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Draghi si presenta agli industriali con la sua vecchia ricetta: svalutazione interna

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Draghi ha fatto un gran discorso all’assemblea di Confindustria, giovedì. La prima grande novità è che egli vede l’inflazione: “l’aumento dei prezzi e la difficoltà nelle forniture in alcuni settori. L’economia globale attraversa una fase di aumento dei prezzi, che riguarda anche i prodotti alimentari, i noli e tocca tutte le fasi del processo produttivo. Non sappiamo ancora se questa ripresa dell’inflazione sia temporanea o permanente, strutturale”, ma non lo esclude. Anzi, scopo del discorso è presentare le sue proposte per fermare l’inflazione.

Fermare l’inflazione. Già, ma come? Anzitutto, con investimenti specifici nei semiconduttori, ma è roba per il “lungo periodo”. Poi, con un consorzio di acquisti Ue per le materie prime, ma quasi gli scappa da ridere mentre lo dice, visto il paragone che egli fa con un supposto “successo” del consorzio di acquisto Ue pei vaccini … che tutto è stato meno che un successo, viste le condizioni capestro imposte dai venditori. Infine, la sua soluzione regina: se l’inflazione “dovesse rivelarsi duratura, sarà particolarmente importante incrementare il tasso di crescita della produttività, per evitare il rischio di perdita di competitività internazionale”.

Incrementare il tasso di crescita della produttività. Già, ma come? Apparentemente, con il mitico Recovery Fund. E qui egli si dilunga specialmente sulle virtù salvifiche delle riform€ che lo accompagnano: la concorrenza, anzitutto … cioè a dire la messa a gara delle concessioni marittime e balneari che (secondo lui) sarebbero “rendite”; riforma della giustizia; semplificazioni; e poi la flex-security, necessaria visto che “la transizione ecologica non è una scelta, è una necessità” ma (lo aveva spiegato lo scorso maggio a Porto) causerà molti disoccupati. Senza dimenticare “la struttura ministeriale per la gestione e il monitoraggio del Piano”, “la consultazione pubblica sulla banda larga” e “gli importanti investimenti nei porti e nello sviluppo dell’economia del mare”. Tutto ciò consentirà (secondo lui) di “sciogliere i nodi strutturali che legano da anni il nostro Paese”.

Ma sciogliere i nodi strutturali basta ad incrementare il tasso di crescita della produttività e, quindi, a fermare l’inflazione? No, non basta. Lo dice lui stesso: “un governo che cerca di non far danni è già molto, ma non basta purtroppo per affrontare le sfide dei prossimi anni”. Non basta.

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E perché non basta? A causa delle sfide dei prossimi anni. E quali sono queste sfide? “in primis le tensioni geopolitiche, il protezionismo, ma anche il probabile mutare delle condizioni finanziarie, il graduale affievolirsi degli stimoli di bilancio”.

Tale affermazione è in contraddizione con altre che lui fa nel discorso: che “il Governo da parte sua non ha intenzione di aumentare le tasse” e che “questa fase richiede una politica di bilancio equilibrata ed efficace”. Una contraddizione che lui nel discorso non scioglie. Ma la soluzione della quale è evidente a chiunque abbia presente che le condizioni finanziarie e, quindi, la possibilità di fare stimoli di bilancio dipendono non da Draghi, ma dagli acquisti di Bce. E, siccome Draghi vede l’inflazione, conseguentemente egli non può non vedere pure la fine degli acquisti. D’altronde, Reuters ha appena confermato che Bce vede l’inflazione ben meno temporanea e ben più alta delle proprie previsioni ufficiali. E la stessa Reuters ha confermato che l’illusione italica di sostituire il programma di acquisti straordinari PEPP con un aumento del programma di acquisti ordinari APP è, appunto, una illusione. Come potrebbe mai, Draghi, non aumentare le tasse se Bce lo abbandona?

Dunque, ed è Draghi a dirlo, il mutare delle condizioni finanziarie produrrà l’affievolirsi degli stimoli di bilancio … nonostante il Recovery Fund. Ebbene, per forza che il Recovery non basta per affrontare le sfide dei prossimi anni: sarà compensato da una stretta monetaria e fiscale. Ripetiamolo: non è un sovversivo NoEuro anti-sistema a dirlo … ma il Gran Maestro di tutti gli €risti!

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Che gli resta? Un appello all’unità nazionale: “occorre essere uniti per non aggiungere incertezza interna a quella esterna”. Per fare cosa? Per fare ciò che si fece negli anni del boom economico prima dell’autunno caldo del 1969: un “sistema di relazioni industriali”, caratterizzato da una notevole moderazione salariale. La vecchia politica dei redditi, per l’occasione ribattezzata “un patto economico, produttivo, sociale del Paese”, “una prospettiva economica condivisa”, “mettersi seduti tutti insieme e cominciare a parlare”, “una prospettiva di sviluppo – o vogliamo chiamarla patto – a beneficio anche dei più deboli e delle prossime generazioni” … ma sempre della vecchia politica dei redditi si tratta.

Orbene, la politica dei redditi è quella cosa per cui il costo del lavoro cresce solo in proporzione all’aumento della produttività. A sua volta, la produttività è il rapporto fra il valore della merce prodotta ed il costo delle ore lavoro necessarie a produrla. Ma le imprese non producono se non vendono. Quindi, perché i salari aumentino, è necessario che aumentino le vendite delle imprese. Tali vendite possono aumentare in tre modi:

  • anzitutto, in presenza di una crescita generalizzata della domanda. Ma è lo stesso Draghi implicitamente ad escluderlo, quando parla di tensioni geopolitiche, protezionismo, mutare delle condizioni finanziarie e affievolirsi degli stimoli di bilancio.
  • in secondo luogo, le vendite possono aumentare perché le imprese conseguono un vantaggio competitivo attraverso nuovi investimenti. Ma queste ultime investirebbero solo a condizione di poter operare in un quadro finanziario stabile, cioè a condizione di essere certe di non dover subire una ripetizione del 2011: cosa che solo Bce potrebbe promettere e non promette, anzi. D’altronde, è lo stesso Draghi implicitamente ad escluderlo, quando parla del mutare delle condizioni finanziarie e dell’affievolirsi degli stimoli di bilancio. Sì, certo, a Draghi è partita la vena lirica: chiama le imprese a “la responsabilità nazionale” (che non può essere altro che fare investimenti), per poi scadere nella peggio retorica (“vorrei che la pagina che state scrivendo oggi con il vostro impegno fosse ricordata come un momento storico … Sono certo, conoscendo le virtù dell’impresa, che sarà una pagina di cui l’Italia andrà fiera”). Ma sono parole vuote;
  • in terzo luogo, le vendite possono aumentare perché le imprese aumentano i prezzi meno dell’inflazione, se pure il costo del lavoro aumenta meno dell’inflazione ovvero gli stipendi vengono semplicemente tagliati. Quest’ultimo non è un caso limite: ha ampi precedenti (il ministro De Stefani, 1922-23), esempi contemporanei (Alitalia) ed è stato esplicitamente indicato da Draghi nella famosa lettera a Berlusconi del 2011 (“il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego … se necessario, riducendo gli stipendi”). Il povero Enrico Letta, il quale festeggia e dice di voler fare “sul modello di quello che fece Ciampi”, non ha capito che Ciampi operava dentro condizioni monetarie che si facevano espansive, mentre qui sarebbe l’inverso. Sarà possibile acquisire il consenso del lavoro a concedere un proprio impoverimento sostanziale dentro un nuovo 2011? Ne dubitiamo fortemente.

Insomma, è quella di Draghi una nuova prospettiva di sviluppo? No, non è nuova. Ma solo la ennesima ripetizione della sua vecchia ricetta: la svalutazione interna. L’ultima volta la aveva espressa ai Lincei. Questa vecchia prospettiva di sviluppo può funzionare? Sì, potrebbe. Ma è completamente dipendente dal benvolere di imprese e lavoro. Il quale, a sua volta, dipende dal benvolere di Bce. E, siccome il benvolere di Bce sta per trasformarsi in un nuovo 2011: Draghi è in trappola.

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Può Draghi uscire dalla trappola? Dentro l’Euro, solo ricorrendo allo stato di eccezione. Alla Assemblea di Confindustria, egli ha scandito: “nessuno può chiamarsi fuori”.

Perché, viene da domandarsi, perché non posso tirarmi fuori? Se mi tiro fuori, cosa mi succede? Draghi non lo dice. Ma loda il Green Pass come “uno strumento di libertà, di sicurezza”. Cioè, loda uno strumento esplicitamente autoritario come uno strumento di libertà: la repressione è libertà, il nero è bianco, il gatto è un cane, il cavallo bianco dell’imperatore era nero … e nessuno può chiamarsi fuori.

È già pronto il Green Pass per togliere dal mercato gli imprenditori che non avranno aderito al patto di sviluppo? È già pronto il Green Pass per togliere lo stipendio ai lavoratori che si saranno chiamati fuori dalla politica dei redditi? È già pronto il Green Pass per togliere i soldi dai conti correnti di chi non li avrà investiti come vuole Draghi? È già pronto il Green Pass per escludere dai seggi gli elettori che non vorranno votare per il partito della responsabilità nazionale? Non ci stupiremmo. D’altronde, il Green Pass ha fatto saltare ogni vincolo costituzionale, nel tripudio dei partiti, nel silenzio delle Corti e con la firma del presidente della Repubblica. Ormai tutto è possibile.

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