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Effetto Draghi svanito o mai esistito? L’inarrestabile parabola discendente del premier

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Si è esaurito l’effetto Draghi o siamo davanti addirittura al segnale di un disfacimento politico seguito alla delusione per la mancata salita al Quirinale?

Lo scorso 12 luglio, all’indomani della vittoria della Nazionale di Mancini agli europei di calcio, Il Messaggero parlò esplicitamente di “effetto Draghi sul pallone: Super Mario aiuta Super Mancio”. Il merito del premier? Aver creato un contesto internazionale favorevole all’Italia, presentandola nei consessi europei e mondiali come un Paese serio, credibile e rinnovato; un Paese che dà quest’immagine – scriveva Mario Ajello – è attrezzato a vincere. Insomma, Draghi era stato l’artefice di quest’Italia rinvigorita che, in quei giorni, trionfava a Wembley infliggendo un dispiacere a domicilio al tanto detestato Boris Johnson e veniva rappresentata per la prima volta nella finale di Wimbledon per merito di Matteo Berrettini, poi sconfitto da Djokovic. Addirittura, pure l’affermazione musicale dei Maneskin sulla platea mondiale veniva attribuita a queste doti quasi taumaturgiche del primo ministro che telecomandavano tanto i guantoni di Donnarumma quanto la racchetta del tennista romano. Solo che, finito il racconto oleografico ed esaurite le iperboli, bisogna far i conti con la realtà e, per restare in tema di metafora, con la recente e cocente esclusione (la seconda consecutiva) della Nazionale dai mondiali che si terranno in Qatar. E allora come la mettiamo? Si è esaurito l’effetto Draghi o siamo davanti addirittura al segnale di un disfacimento politico seguito alla delusione per la mancata salita al Quirinale?

Seppure la luna di miele con una parte della stampa che resta più draghista di Draghi prosegue, è evidente che si avverte una certa stanchezza, un affievolimento della spinta iniziale che aveva portato molti – anche alcuni che oggi sono molto critici verso Palazzo Chigi – a ritenere che, dopo la balbettante esperienza contiana, ci sarebbe stato un cambio di passo e un superamento dell’asfissiante burocrazia pandemica che ha disintegrato il tessuto economico del Paese. Invece, Draghi si è lasciato inchiodare alla linea Speranza, in assoluta continuità con il precedente governo. Anzi, la politica sanitaria del suo esecutivo si è dimostrata ancor più severa e per certi aspetti esoterica perché ha conservato e ancora conserva restrizioni irritanti mentre il resto del mondo occidentale ha praticamente riaperto ogni attività e archiviato la vicenda. E, quanto più questa linea appare ormai anacronistica e dannosa, tanto più viene perseguita, reiterata e prolungata in maniera estenuante.

Eppure, questa intransigenza sanitaria ha avuto un costo elevatissimo per il Paese. I dati diramati dalla Fipe, la federazione italiana dei pubblici esercizi, sono impietosi: 45 mila tra bar e ristoranti costretti alla chiusura, 57 miliardi bruciati e quasi 200 mila posti di lavoro persi. Per non parlare del turismo devastato dalle scelte governative con un’altra Pasqua rovinata dalle regolette sanitarie. “Ce la siamo cercata”, ha dichiarato il ministro Garavaglia a La Stampa. “Potevamo anticipare di quindici giorni le regole che scatteranno dal 1 maggio, dare maggiore libertà alle persone. Invece andiamo con il freno a mano tirato, ci siamo autolimitati”, ha concluso amaramente il responsabile del turismo che, evidentemente, non è riuscito ad arginare la deriva provocata da una gestione scellerata e assai ottusa i cui risultati catastrofici sono sotto gli occhi di tutti.

Perciò, parlare di effetto Draghi appare abbastanza azzardato se non paradossale. Anche ora che sembra aggrapparsi a un atlantismo funzionale ad agganciarsi alla posizione muscolare di Biden, il quale tenta così di far dimenticare tanti inciampi che hanno caratterizzato la prima fase del suo mandato. Insomma, Super Mario dà l’immagine del leader risoluto, arrembante pure in controtendenza rispetto alla tradizionale prudenza italiana nelle crisi internazionali. Si dimostra pronto ad assorbire le intemperanze verbali e l’inesperienza del suo ministro degli esteri, a rintuzzarsi con il suo predecessore sull’aumento delle spese militari, in quello che appare il più classico gioco delle parti, a guidare la coalizione anti-Putin, a mettere in campo il whatever it takes per fermare l’avanzata delle truppe russe nell’Europa orientale salvo porgere un ramoscello d’ulivo al Cremlino con una telefonata assai enfatizzata dall’informazione mainstream. “Sta mano pò esse fero e pò esse piuma”, avrebbe detto un altro Mario che di mestiere faceva l’attore.

Peccato che, in tutto questo sgomitare, manchi del tutto una visione politica, un orizzonte ideologico, una piattaforma su cui costruire qualcosa di più concreto di un effimero consenso che si sta per giunta assottigliando come dimostrano sia i sondaggi sia alcune contestazioni di piazza (l’ultima quella al Rione Sanità di Napoli che, seppure sopra le righe, è stata silenziata dalla maggior parte della stampa). Quest’anno di governo non è servito a definire l’identità politica dell’ex banchiere che, però, ha rivelato un’anima sicuramente democristiana nella prima fase della sua esperienza governativa, quella che doveva essere il trampolino di lancio verso il Quirinale: accontentare tutti i partiti di maggioranza per ricavarne l’ambito premio, anche a costo di trasformare il liberale in dirigista, il riformista in reazionario, l’economista in virologo. Invece, come sappiamo, le cose non sono andate come immaginava per diverse ragioni. La paura delle elezioni anticipate, la voglia dei partiti di smarcarsi dal Demiurgo della situazione, la proroga dello stato di emergenza lo hanno tenuto inchiodato a Palazzo Chigi.

Intendiamoci, Draghi ci ha messo anche del suo. Lo scivolone del 22 luglio scorso resterà scolpito nella memoria di questo Paese: “Il Green Pass dà la garanzia di trovarsi tra persone non contagiose”. Una frase improvvida smentita dai fatti e che ha segnato probabilmente l’inizio del declino. E che forse ha fatto svanire definitivamente l’effetto Draghi, se mai è esistito. Ora restano solo le macerie della gestione pandemica, gli aumenti spropositati, il Pnrr incentrato sulla transizione ecologica da riconsiderare alla luce dei recenti avvenimenti, una crisi economica galoppante aggravata dalla guerra in Ucraina, il timore fondato di nuove imposte sugli immobili. In questa inarrestabile parabola discendente di Draghi c’è tutta la differenza che passa tra un vero leader e “un nonno al servizio delle istituzioni”, tra uno stratega e un tattico, tra un uomo dai poteri magici presentato come il salvatore della Patria (non solo calcistica) e il gelido tecnocrate costretto a trascinare il fardello di una legislatura tenuta in vita solo dalle emergenze. In pratica, la sua nemesi. Il suo viale del tramonto.

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