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Le sirene della distensione con la Cina: ma Pechino non può essere un partner

Zuppa di Porro: rassegna stampa del 20 novembre 2020

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Le sirene della distensione con le superpotenze avversarie hanno agitato ciclicamente il dibattito politico Usa, fino a diventare negli anni ‘70 del secolo scorso la politica semi-ufficiale di Washington nei confronti di Mosca e Pechino. Vertice per eccellenza non muscolare del triangolo distensione-contenimento-deterrenza, non attraversa oggi un momento particolarmente algido in uno scenario internazionale scosso dalle ambizioni revisioniste di Vladimir Putin e Xi Jinping.

L’amministrazione Biden non fa mistero di considerare la sfida dell’Indo-Pacifico con la Cina l’asse attorno a cui ruota la sua foreign policy, segnalando – a mio parere a ragione – quella del regime comunista come la principale minaccia di carattere ideologico ed economico all’ordine liberale a guida statunitense.

L’articolo di Ferguson

Niall Ferguson, storico conservatore di origine scozzese e accademico alla Stanford University, autore di diversi libri tra cui uno molto controverso su Kissinger idealista, suggerisce in un lungo articolo pubblicato da Bloomberg di rispolverare il concetto di distensione e di applicarlo proprio alle relazioni con Pechino: “Distensione è ancora un termine proibito? Spero proprio di no. Potremmo averne presto bisogno”, questo il suo incipit.

L’analisi è molto articolata, parte dalla Guerra Fredda per arrivare alla questione Taiwan, passando per il conflitto in corso in Ucraina ma, a dirla tutta, non è particolarmente originale nei contenuti. Si tratta, a grandi linee, della posizione condivisa tradizionalmente da paleo-conservatori e realisti, tendente a leggere le linee programmatiche della politica estera americana in chiave interna, a non tenere conto della natura dei sistemi politici con cui ci si confronta e perennemente oscillante tra appeasement e isolazionismo.

Ferguson è certamente uno degli esponenti più sofisticati di questa corrente di pensiero, e si guarda bene dall’offrire il fianco all’incasellamento in una categoria specifica. Tuttavia il suo articolo, sia nelle premesse che nelle conclusioni, si discosta chiaramente da qualsiasi ipotesi idealista (o semplicemente morale) e promuove al contrario la tesi della minimizzazione dell’impatto delle scelte in materia di relazioni internazionali.

Ferguson, favorevole all’intervento in Iraq nel 2003, scriveva lo scorso marzo a proposito degli aiuti militari all’Ucraina:

“Devo concludere che l’intenzione degli Usa è che la guerra vada avanti. L’amministrazione Biden continuerà a fornire (armi) agli ucraini (…) e questo spiega, tra l’altro, l’assenza di ogni sforzo diplomatico da parte americana per garantire un cessate-il-fuoco. (…) Prolungare la guerra rischia di lasciare decine di migliaia di ucraini sul terreno e di offrire a Putin qualcosa che possa presentare in patria come una vittoria”.

Insomma, non precisamente una strenua difesa del diritto di Kiev a respingere l’aggressione né della convenienza di assisterla nell’impresa.

Se questo invito alla non partecipazione alla guerra europea non implica di per sé la non belligeranza nei confronti di Pechino (non c’è una ricetta valida per ogni pasto), segnala certamente una linea d’azione (o inazione) a suo modo coerente: “Siamo di fronte – sottolinea l’autore a proposito della strategia di Washington – alla classica situazione che i vecchi storici tedeschi definivano come primato della politica estera”.

Usa troppo esposti?

In poche parole, per Ferguson gli Stati Uniti si stanno esponendo troppo, sia sul fronte ucraino sia (ci torneremo fra poco) sulla questione Taiwan: invece di essere un intermediario nella ricerca della pace, sono diventati “l’arsenale della democrazia ucraina” con l’obiettivo più o meno esplicito di provocare la sconfitta dei russi sul campo di battaglia. Un proposito che per Ferguson rischia di ripercuotersi negativamente sull’interesse nazionale americano.

Risuonano qui gli echi di una realpolitik miope e di corta gittata, che rifiuta la considerazione dell’Ucraina come alleato strategico e ricalca le argomentazioni dell’ultra-conservatore Pat Buchanan, favorevolmente accolte già all’epoca dai circoli realisti e filo-russi italiani e analizzate dal sottoscritto in un articolo del 2019. Peccato però che solo pochi giorni fa dal ministero degli esteri di Kiev si ribadisse a chiare lettere che “l’Ucraina non ha bisogno di mediatori ma di alleati”.

Mano tesa a Pechino

Veniamo alla Cina e a Taiwan, a cui è dedicato il nucleo dell’analisi. Per promuovere l’argomento della distensione nei confronti del regime di Pechino, Ferguson ha bisogno di ricorrere al vecchio trucco realista dell’inversione dell’onere della prova. Non tocca alla Cina dimostrare di non avere intenzioni belligeranti ma sono le democrazie occidentali (in questo caso gli Usa) a dover dare il primo passo in direzione dell’avversario, offrendogli accordi, concessioni, buone relazioni commerciali, in una parola rassicurandolo.

Tre sarebbero le direttrici iniziali che Biden dovrebbe percorrere: 1) porre fine alla “guerra commerciale”; 2) chiedere aiuto a Pechino per premere su Putin in Ucraina; 3) agire insieme sui produttori di petrolio arabi per incrementare la produzione.

Insomma, mano tesa al Partito Comunista Cinese per risolvere insieme le crisi più urgenti e disinnescare le tensioni nell’Indo-Pacifico. Secondo Ferguson la distensione avrebbe una funzione tattica importante, in quanto consentirebbe a Washington di comprare tempo in un momento in cui la deterrenza nucleare ha perso la sua forza. La Cina starebbe prendendo nota delle minacce reiterate di Putin sull’uso di armi non convenzionali e sarebbe pronta a replicarle per garantirsi la non-interferenza americana su Taiwan.

A questo punto, conclude Ferguson, meglio un riavvicinamento preventivo stile anni ‘70 che una guerra aperta. Invece di occuparsi della difesa dell’Ucraina e di Taiwan, gli americani potrebbero tornare a pensare ai loro problemi interni, a partire dall’inflazione galoppante che minaccia la crescita economica. Tradotto in un linguaggio non realista, cedere al ricatto della forza e ritirarsi su posizioni d’attesa.

Come questa visione possa conciliarsi con le ambizioni di superpotenza egemone degli Stati Uniti non è dato sapere, a meno che per Ferguson anche questo sia un concetto superato (non lo dice apertamente, ma è lecito sospettarlo).

Realismo vs realtà

Ma quel che, a mio modesto avviso, è più preoccupante è proprio la scarsa attinenza delle teorie della pacificazione – nelle loro diverse incarnazioni – con quella realtà oggettiva che chi le propugna pretenderebbe di far assurgere ad unico criterio di decisione. Ancora una volta realismo e realtà fanno a pugni.

Ferguson omette completamente ogni considerazione sulla natura del regime comunista cinese, che arriva a considerare quasi spontaneamente un potenziale partner con cui scendere a patti. Ma la Cina (così come la Russia, almeno nelle intenzioni) è una potenza revisionista il cui obiettivo è mettere in discussione l’ordine liberale e riscriverlo secondo le proprie regole.

Come dimostra il caso ucraino, solo l’ultimo di una lunga serie, le tensioni interne dei sistemi dittatoriali finiscono inevitabilmente, presto o tardi, per ripercuotersi all’esterno. La weltanschauung di una democrazia liberale, con tutti i suoi dilemmi e le sue contraddizioni, non può essere assimilata a quella di regimi monopartitici che dominano società politicamente chiuse e reprimono ogni forma di dissenso. Se vi servono le prove anche dell’ovvio, andatevi a leggere gli scritti di Rudolph J. Rummel sulla teoria della pace democratica, che illustra la correlazione fra oppressione interna, democidi e guerre.

Quando Ferguson accenna alla situazione interna cinese è solo per criticare le parole del segretario di Stato Antony Blinken, che due settimane fa alla George Washington University aveva ricordato precisamente la natura totalitaria del regime di Pechino (controllo di massa, Xinjiang, Hong Kong, tra gli altri temi sollevati), associandola direttamente alle sue ambizioni revisioniste in ambito internazionale.

Lo storico definisce le parole di Blinken (queste sì coerenti con la realtà dei fatti) “un discorso da falco”, a cui il ministero degli esteri cinese avrebbe risposto “con sorprendente moderazione”. I moderati stanno a Pechino, per Ferguson. Banalizzando un po’ ma nemmeno troppo, in tempi di talk-show all’italiana, “sono stati gli Usa, è stata la Nato”.

Ma per lo storico conservatore sono provocatorie anche le dichiarazioni di Joe Biden quando risponde affermativamente alla domanda su un eventuale intervento a difesa di Taiwan (lo ha ribadito ben “tre volte dallo scorso agosto”, sottolinea Ferguson visibilmente indignato). Se ne deduce che la strategia corretta, dal suo punto di vista, sarebbe escludere a priori qualsiasi intenzione di proteggere l’isola militarmente, in linea con le dichiarazioni sul non-intervento Nato che hanno preceduto e spianato la strada all’invasione russa dell’Ucraina. Maledetta realtà.

La risposta di Xi

Ma Xi Jinping come risponderebbe a una proposta di détente da parte di Biden? Secondo Ferguson, con assoluta buona fede (come dubitarne). Le difficoltà interne derivate dalle politiche zero Covid e l’appoggio problematico alla Russia in Ucraina starebbero indebolendo la sua leadership. Un eventuale patto di non belligeranza con gli Usa sarebbe quindi accolto come una boccata d’ossigeno dal dittatore (lui non lo chiama così) cinese.

Di più. Tra le righe Ferguson insinua che potrebbe addirittura saldarsi una sorta di accordo tra Pechino e Washington in funzione anti-russa, rovesciando così la teoria comunemente in voga prima della guerra secondo cui gli Usa avrebbero dovuto invece utilizzare proprio Mosca come diga di contenimento delle ambizioni di Pechino.

I conti con i piani di Pechino

Ma di queste ambizioni, nell’analisi di Ferguson, non v’è traccia. La Cina è vista unicamente come attore razionale e responsabile da coinvolgere nella gestione degli affari mondiali per evitare mali maggiori. Una sorta di Impero Celeste che si limita a reagire alle iniziative altrui, senza alcuna agenda ideologica da imporre.

Che possibilità esistono che inizi una nuova era della distensione fra le due superpotenze? Nessuna, sottolinea l’autore, ovviamente per colpa dell’amministrazione Biden, che sarebbe impegnata fin dalla campagna per l’elezione presidenziale a dimostrarsi quanto più intransigente possibile verso Pechino: la strategia del contenimento sarebbe ormai una policy irreversibile, oltretutto l’unica realmente bipartisan.

Se la scelta è tra una guerra per Taiwan e un decennio di détente, scelgo la parola proibita francese”, conclude Ferguson, facendo dipendere un eventuale conflitto dall’atteggiamento Usa e non dai piani d’attacco della Cina.

L’idea che di fronte alla minaccia dell’autoritarismo si possa esercitare un deterrenza efficace non sfiora nemmeno certi circoli accademici e geopolitici, al di qua e al di là dell’Oceano. Tu chiamalo se vuoi… realismo.

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