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I dolori dei giallo-rossi, che nel Governo Draghi dovranno digerire la coabitazione con Salvini

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Il tormentone del dibattito politico aperto dall’incarico a Mario Draghi prende spunto dalle parole del presidente della Repubblica che lo hanno accompagnato, cioè il varo di “un governo di alto profilo che non dovrà identificarsi in alcuna formula politica”. Interpretato sullo sfondo di uno stallo istituzionale – quale costituito dall’inesistenza di una qualsiasi maggioranza, di centrosinistra o di centrodestra, pur in presenza di una triplice crisi, sanitaria, economica e sociale – esso suona come un mandato per Draghi e un invito per il Parlamento a non mettere veti sull’ingresso di date forze politiche e a non porre come condizioni presenze e rivendicazioni fortemente identitarie, come tali del tutto divisive. Tanto è che l’accento viene posto sulla composizione del governo come di “alto profilo”, che certo non può riguardare solo Draghi, ma l’intera compagine ministeriale, con la chiamata in servizio di personalità di accreditata autorevolezza nella stessa società civile, per competenza e curricula.

Pare esservi sotteso un duplice giudizio negativo, circa la incapacità della vecchia maggioranza a ricomporsi, che l’accomuna tutta, senza entrare in quella ripartizione della colpa fra Renzi e la sua vecchia compagnia coltivata dentro e fuori dei palazzi romani; e, circa l’insufficienza complessiva della squadra del Conte-bis. Comunque sia, secondo un modello già sperimentato, quello che traluce nelle parole di Mattarella è un classico governo tecnico, almeno nei suoi tratti essenziali, se pur non tutti presenti nei casi concreti sperimentati in passato: nascere in presenza di una situazione emergenziale non affrontabile da una chiara e solida maggioranza; avere un presidente del Consiglio di alta caratura professionale, ma anche di nessuna caratterizzazione partitica; concedergli una scelta formalmente libera dei ministri, caratterizzati anzitutto da una reciproca relazione di fiducia; fargli contare su una maggioranza tendenzialmente aperta; lasciargli realizzare un programma non concordato nelle segreterie dei partiti.

Non è sufficiente sostenere che ogni governo tecnico è anche politico, solo in quanto è caratterizzato in base ad un preciso indirizzo programmatico e operativo, questo è implicito in ogni governo, se la parola ha pur sempre qualche senso. Per evitare ogni equivoco, sarebbe allora opportuno sostituire la parola politico con partitico, sì da poter capire che cosa si intende quando da parte di Di Maio, Conte e lo stesso Zingaretti si chiede un governo non tecnico ma politico. In che senso dovrebbe esserlo? Non certo nella figura di Draghi, di cui si è indagato ogni parola e comportamento del suo passato, senza riuscirne a trarre fuori che il ritratto di un super-competente, senza dubbio elitario per educazione e carriera, pubblica ma non senza una qualificata presenza privata, moderato e pragmatico, diffidente di ogni approccio ideologico e centrato sul problem solving. Europeista, ma double face, perché prima ha firmato, da presidente entrante della Banca centrale europea – su pressing di quel Berlusconi che lo aveva già fatto nominare presidente della Banca d’Italia – la famosa lettera all’insegna dell’austerity spedita proprio al cavaliere; poi, ha pronunciato, da presidente in carica della Banca europea, il “Whatever it takes”, semaforo verde per il Quantitative Easing.

Non basta a trasformarlo in un governo politico, l’eventuale presenza di ministri espressi dai vari partiti, che non potrebbero essere meri portatori di interessi non conciliabili sì da paralizzare l’esecutivo; perché è o dovrebbe essere scontato in partenza che l’amalgama spetta allo stesso Draghi, che si riserverà l’ultima parola definitiva, tenendo ferma sul collo dei suoi collaboratori la stretta su ogni comunicazione in dissenso, a costo di congedarli seduta stante. E, neppure, basta la composizione della sua maggioranza, perché, oggi, sembra sfiorare l’unanimità, con la chiamata fuori forse di una pattuglia di 5 Stelle e certo di Fratelli d’Italia, sì da non dare alcun imprinting aprioristico al governo.

Qui sta la sofferenza maggiore della cordata 5 Stelle, Pd, Leu, con Zingaretti a rivendicare la grande vittoria su Renzi, per aver tenuto insieme la futura coalizione di centrosinistra, esattamente quella che Renzi voleva sfasciare. Questo senza tener conto della pesante ipoteca posta da Conte nel suo scenografico arrivederci, come leader non solo dei 5 Stelle, che si ripromette di farne il primo partito del futuro Parlamento, ma anche della coalizione, battezzata come l’Alleanza per lo sviluppo sostenibile.

Solo che i 5 Stelle trovano indigesto l’uomo delle banche, opponendogli la strenua difesa dei punti programmatici identitari, a cominciare dal reddito di cittadinanza; e i 5 Stelle e il Pd non digeriscono affatto la coabitazione non tanto con Berlusconi, riabilitato come grande statista, secondo una tecnica meno cruenta di quella post mortem della Russia sovietica, ma con la Lega. Tenere compattato il centrosinistra – dove, però, evaso Renzi, il centro dovrebbe essere rappresentato da Tabacci non certo dai 5 Stelle – è un risultato importante; ma il fatto è che il trait-d’union è stato quello di un baluardo contro la schiuma dei populisti, sovranisti, trumpiani, con una ben netta delimitazione del perimetro di una maggioranza democratica, costituzionale, europeista.

Ora che, invece, con la benedizione dello stesso Mattarella, cui certo il Pd che lo ha espresso non può dire di no, tutti vengono chiamati al salvataggio della Repubblica, senza alcuna distinzione fra santi e diavoli, dalle parti del Nazareno si continua a parlare di una “maggioranza Ursula”, sperando che Salvini si chiami fuori; e, comunque, dando per ovvio che a contare, non fosse che per la forza dei numeri, sarà la compattezza dei 5 Stelle, Pd, Leu. E, in aggiunta, ci si consola col fatto che il centrodestra si presenti disunito, perché, se pur Berlusconi e la Lega daranno un sì, Fratelli d’Italia resterà sull’Aventino, certa di lucrare, a tutto danno dei suoi alleati, la rendita di essere la sola significativa forza di opposizione. Il sì di Berlusconi è ovvio, dato il suo passato, senza bisogno di evocare il rischio altrimenti inevitabile di una scissione di Forza Italia; il sì della Lega è meno scontato, ma ben spiegabile in base al peso del Nord e al riconoscimento che ne conseguirà come forza responsabile anche a livello europeo. Così il centrodestra si troverà diviso, ma ha già dimostrato di essere estremamente flessibile, nel senso di recuperare sempre una solida unità nelle ricorrenze elettorali, dove risulta come coalizione estremamente competitivo.

L’itinerario di Draghi non sarà affatto facile, una volta svaporato un consenso largamente artificioso. Si può dare per scontato che il personaggio sarà estremamente abile, sia nella scelta dei ministri, che, se riguarderà personalità dei partiti, sarà fatta col bilancino, per evitare l’esistenza di squilibri nel dosaggio e la presenza di soggetti troppo caratterizzati; sia nella definizione del programma, che, se toccherà questioni fortemente identitarie, verrà effettuata con estremo equilibrio, per escludere reazioni allergiche estreme. Qui lo salverà la sua competenza tecnica, tale da poter inventare soluzioni compromissorie, che salvino i principi pur a scapito delle loro declinazioni operative; nonché la sua capacità di concentrarsi sugli aspetti organizzativi del piano vaccinazioni, del progetto del Next generation plan, del mercato del lavoro, senza intestarsi riforme di medio lungo periodo, se non nei limiti richiesti dalla Ue.

Un primo problema dipenderà dalla debolezza istituzionale dell’esecutivo, nell’ambito di un sistema strettamente parlamentare, come confezionato nel clima di incertezza che precedette le elezioni politiche del 1948, cui si è ovviato con un crescendo culminato nel Conte-bis, tramite decreti legge confezionati in fretta e furia, conversioni fatte con la tagliola delle questioni di fiducia, invenzione a usura di una fonte extra ordinem, costituzionalmente borderline, quale i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma questo deficit parlamentare richiedeva l’esistenza di una maggioranza ben strutturata e definita, che permettesse, sia pur con forti mal di pancia, di essere marginalizzata se non espropriata; ora, però, non sarà più così, con la conseguente crescita di iniziativa di un Parlamento non più ingabbiato a priori, specie laddove ci sarà un largo spazio lasciato volutamente vuoto da Draghi, a cominciare dalla legge elettorale e a finire con la riforma della giustizia.

Draghi non è una persona da lasciarsi spaventare, se accetterà lo farà a ragion veduta, avendo ben presente che un conto è ora, dove sta uscendo dal porto, fra gente acclamante; ed un conto diverso sarà poi, in un mare aperto già ribollente. Certo potrà contare sulla incondizionata paura del centrosinistra di andare alle elezioni politiche, proprio nel mentre sta trattando per affrontare le amministrative unitariamente, cosa tutt’altro che facile, viste le ipoteche poste su Roma dai 5 telle e su Milano dal Pd. Ma prima di arrivare al semestre bianco, una specie di libera uscita per tutti, deve accantonare parecchio fieno in cascina, con la percezione traversale da parte dell’opinione pubblica di un cambio di passo significativo. Se, poi, verrà eletto presidente della Repubblica…

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