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L’emergenza Italia: in crisi principio democratico, stato di diritto, eguaglianza davanti alla legge

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Quanto accaduto la scorsa settimana al leader dei portuali di Trieste, in sciopero contro l’imposizione del Green Pass sui luoghi di lavoro, è per molti aspetti sconcertante, mentre per altri conferma una linea di tendenza nel rapporto tra potere pubblico e cittadini in atto da alcuni anni. Stefano Puzzer stava manifestando il suo dissenso rispetto alle politiche sanitarie governative tutto solo, seduto in un angolo di una piazza romana: una forma di protesta che dimostrava in fondo un forte rispetto per le istituzioni statali, forse se mi è permesso dirlo, maggiore di quello che queste ultime hanno dimostrato per il solitario dimostrante, il quale tramite l’intervento della forza pubblica – cioè quella forza esercitata in nome della legge e del popolo italiano – è stato allontanato e a cui è stato addirittura vietato di tornare per un anno nella capitale.

Non è stata una bella pagina nella storia della vita civile e politica del nostro Paese. È stata invece una manifestazione al tempo stesso di forza e di debolezza da parte dello Stato, e siccome un misto di forza e debolezza e soprattutto una alternanza talora illogica e incomprensibile tra le due caratterizza ormai da molti anni in maniera sempre crescente l’azione di rappresentanti del potere pubblico in Italia, alcuni commentatori iniziano a chiedersi se lo Stato italiano, che con tutti i suoi difetti dalla caduta del fascismo in poi è di tipo liberal democratico, non si stia lentamente trasformando in qualcos’altro.

Ormai da decenni si susseguono libri e articoli che parlano del “declino dell’Occidente” e che prevedono il futuro venire meno in tutto o in parte di alcuni dei caposaldi della vita sociale e politica che sono tipici dei Paesi di cultura occidentale e quindi anche del nostro. Molti iniziano a chiedersi se, come nell’antica favola di Esopo, dopo avere tanto gridato “al lupo”, il lupo, anche se non ancora arrivato, non sia ormai dietro l’angolo. Una breve analisi dello “stato di salute” dei principi liberal-democratici nel nostro Paese induce a mio avviso a qualche preoccupazione.

Da molti anni ormai in Italia il capo del governo non è scelto in base al voto popolare e sembra essersi rotto il meccanismo tipico delle democrazie che fa sì che i leader politici propongano all’elettorato i rispettivi programmi di governo e una volta ottenutane l’approvazione cerchino di porre in atto gli stessi con la prospettiva di rispondere nuovamente all’elettorato per la loro azione. A questo si aggiunge che il presidente della Repubblica, non eletto dal popolo, da organo di garanzia della legalità costituzionale dell’azione di governo si è piano piano trasformato in un organo con competenze anche di merito politico, e ciò senza essere soggetto al giudizio degli elettori. Se inoltre si tiene conto che le più importanti leggi e scelte di politica economica e sociale sono ormai adottate non in attuazione di un mandato ricevuto dagli elettori, ma in nome di esigenze (ad esempio quella di adeguarsi alle decisioni dei funzionari dell’Unione europea) che nulla ha che fare hanno la volontà degli stessi, non si può che concludere che il principio democratico è in piena crisi.

Non solo esso. Anche il principio dello “stato di diritto”, in base al quale il potere pubblico emana le norme e poi è il primo a rispettarle non sta meglio. Le leggi di emergenza, come molti hanno sottolineato, stanno diventando permanenti ed i vari governi (compreso quello attuale) tendono a decidere discrezionalmente quando e come utilizzare i poteri eccezionali, che come tali dovrebbero essere limitati il più possibile, e legati a parametri oggettivi (nessun altro Paese occidentale ha emanato misure formalmente tanto rigide per contrastare  l’epidemia). Ciò vale in particolare per il rispetto delle regole costituzionali: ad esempio la legge può imporre un trattamento sanitario obbligatorio (come un vaccino) ma non può in alternativa limitare altri diritti costituzionalmente protetti, come quello al lavoro. In altri tempi la Corte costituzionale avrebbe dichiarato illegittime tutte le norme sul certificato verde in quanto frutto di un “eccesso di potere legislativo”.

Stiamo quindi slittando verso un rigido stato assoluto di antico regime, come ad esempio la Prussia di Federico II o l’Austria di Giuseppe II, dove il sovrano regolava di propria iniziativa la vita dei singoli anche nei minimi dettagli in vista dell’interesse pubblico? Non proprio: quegli stati erano caratterizzati dalla eguaglianza nell’applicazione della legge ai loro sudditi mentre la situazione italiana è molto diversa. Alcune piazze vengono munite di sensori elettronici per vietare gli assembramenti, mentre in altre parti delle città la delinquenza organizzata può agire senza troppi ostacoli, e i “rave party” possono svolgersi indisturbati. Il singolo che protesta viene allontanato dalle forze dell’ordine, ma le stesse possono essere impunemente attaccate addirittura in senso fisico dai rappresentati delle ong estere che vogliono imporre le loro discutibili concezioni sulle politiche dell’immigrazione. Anche l’uguaglianza davanti alle norme – fosse anche l’uguaglianza derivante dall’obbedire ad una sorta di sovrano assoluto – sta venendo meno.

Andiamo quindi, si dirà, verso un assolutismo basato sulla discrezionalità del sovrano quale quello francese, che funziona quando a gestire lo stato è un monarca capace quale Luigi XIV e che invece crea danni se diretto da un Luigi XVI? Nemmeno: in questo tipo di stato le decisioni discrezionali e a volte incoerenti di chi governa erano pur sempre attuate solamente grazie all’azione dei funzionari pubblici. Poche norme come quella sul certificato verde dimostrano invece che in sostanza il potere pubblico in Italia tende sempre più a non occuparsi in prima persona dell’applicazione delle norme che esso stesso emana, salvo per quelle situazioni che servono a presentare una facciata di rigore dietro la quale si cela una realtà opposta. A parte i casi molto estesi del lavoro nero, per definizione al fuori del rispetto delle norme (non ha alcun effetto la minaccia di chiudere un’attività che non avrebbe dovuto essere aperta), anche nelle situazioni “normali” il Green Pass viene richiesto non dalle forze dell’ordine, ma “a campione” dal collega addetto ai controlli, dai camerieri dei ristoranti, dagli insegnanti  o dai collaboratori scolastici ecc. Nella gran parte dei casi il certificato è solo una formalità di cui non si tiene conto, e molti dicono che esso funziona proprio perché di fatto non è in larga misura applicato, ma quando lo è ciò si deve più che al timore degli interventi delle forze dell’ordine, a quello delle denunce e/o delle rimostranze di coloro che, a volte spinti da una rispettabile paura dei contagi (che però non tiene conto della altrettanto rispettabile paura altrui degli effetti dei vaccini), a volte spinti da motivi meno nobili vogliono imporre ai concittadini di adeguarsi alle norme statali. In questo modo sono i privati cittadini a svolgere di fatto funzioni pubbliche, così come viceversa le autorità pubbliche si comportano sempre più come soggetti privati, che impongono ai cittadini non tanto di “obbedire” alle norme in vista dell’interesse pubblico, quanto di “non disturbare il manovratore”.

Il caso Puzzer è emblematico: al leader dei portuali è stato impedito di continuare la sua protesta non perché fosse di per sé illecita, ma perché occupava suolo pubblico, come se quest’ultimo (al di là dei cavilli legali, di cui in altre occasioni simili non si è tenuto conto) non fosse invece a disposizione di tutti per manifestare le proprie idee. Se sono in crisi il principio democratico, lo stato di diritto, l’eguaglianza davanti alle norme, e financo la distinzione tra il ruolo delle autorità pubbliche e la posizione dei privati cittadini, allora le previsioni che una democrazia liberale come quella italiana, già “debole” anche in condizioni ottimali, possa in un futuro non remoto trasformarsi in un sistema di potere di tipo non occidentale (cioè che il lupo possa arrivare davvero) non sono poi così campate per aria.

Ma quale potrebbe essere la forma di potere che verrebbe ad instaurarsi, a quale modello non occidentale si avvicinerebbe? Qualcuno parla di una deriva “cinese”, ma a parer mio la cosa è improbabile: in Cina il potere totalitario si impone tramite una rigida disciplina dal basso, tutto il contrario della china su cui rischia di scivolare sempre più il nostro Paese, una china che può portare ad un sistema politico fatto di un misto di autoritarismo e di anarchia, combinati tra loro da un potere pubblico che interviene ad appoggiare quasi arbitrariamente (sia pure sotto la patina di una legalità formale) le posizioni e gli interessi (nobili e meno nobili) di questo o quel gruppo di pressione senza lasciare alcuna tutela ai singoli se non quella di appoggiarsi ai gruppi vincenti. A mio avviso, il pericolo non è di diventare come la Cina, ma di diventare come il Sud America.

Uno dei maggiori temi di dibattito tra gli storici dell’età moderna è il motivo per cui le due parti del continente americano, come già notava il pensatore francese Alexis de Tocqueville nella prima metà dell’ottocento, abbiano creato dei sistemi statali formalmente quasi identici che però hanno portato a delle realtà politiche concrete così diverse, le democrazie liberali anglosassoni nel Nord, e i sistemi politici sostanzialmente di tipo non occidentale, in quanto in essi manca la distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, nel Sud. Il nostro Paese non è ancora a questo punto ma, almeno a mio modesto parere, il pericolo di degenerare in una forma sudamericana di potere è reale.

A guardare bene già si intravedono alcune caratteristiche di quel tipo di sistema politico: l’esaltazione acritica del ruolo dei membri del governo visti come “campioni del mondo” dell’attività politica; la mobilitazione continua in vista di qualche emergenza da superare o di qualche obiettivo da conseguire; la crescente indistinzione tra posizioni politiche che dovrebbero essere opposte e dovrebbero confrontarsi in una dialettica democratica; la tendenza a privilegiare gli investimenti economici esteri (magari provenienti da quei Paesi che, bontà loro, ci forniscono i fondi per superare la crisi) rispetto alle libere iniziative nazionali; e non ultima la sempre più netta separazione tra la facciata perfetta e la realtà caotica del potere pubblico. Il rischio concreto è quello di andare verso un sistema formalmente ineccepibile e non diverso da quello delle democrazie liberali, dove però di fatto non esistono più diritti ma tutto viene concesso da un potere autoritario “forte”, che però agisce in maniera arbitraria e “debole” in accordo con le scelte dei gruppi economici e sociali che lo sostengono.

Le persone sinceramente democratiche e liberali dell’America latina da sempre si sono battute e si battono (a volte con successo) per modificare questo tipo di potere: per noi la strada verso un esito di questo genere è forse ancora lunga, ma il pericolo è concreto, anche se la tendenza è ancora – vogliamo sperare – reversibile. Si parla tanto di ripresa dopo la pandemia: non possiamo che augurarci che i giorni che stiamo vivendo siano descritti dagli storici di domani come quelli in cui lo Stato italiano riuscì a far ripartire la democrazia liberale dopo l’emergenza (e senza democrazia liberale non vi è nemmeno stabile crescita economica, così come l’inizio della crisi della Cina sta dimostrando), e che non siano invece ricordati come quelli nei quali i rappresentanti del potere pubblico non furono capaci di consentire ad un cittadino con qualche cartello e poche sedie vuote di esprimere il proprio dissenso.

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