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L’inflazione mette alle corde la Bce francese: i cinque nodi di Lagarde. E Draghi prepara la fuga…

Zuppa di Porro: rassegna stampa del 14 aprile 2020

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L’inflazione è in Germania al 6 per cento, nell’Eurozona al 4,9 … non si parla altro che di inflazione. Torniamo a parlarne pure noi.

Nell’ultima conferenza stampa, dopo il Consiglio generale di Bce del 28 ottobre, Lagarde ha ripetuto (non potrebbe fare altro) che Bce è pienamente impegnata all’obiettivo del 2 per cento nel medio termine. Sì, l’inflazione oggi è ben superiore “e continuerà a salire fino alla fine di quest’anno, ma comincerà a diminuire a partire dall’inizio del ’22” (più tardi specificherà “da gennaio” 2022), in quanto – sempre secondo la Signora – i prezzi dell’energia smetteranno di salire, l’effetto statistico della deflazione precedente sarà svanito, l’offerta dei prodotti e servizi oggi richiesti aumenterà abbastanza da soddisfare la domanda. Sicché, l’inflazione a medio termine continua ad essere sotto il 2 per cento. Solo oltre tale medio-termine i salari recupereranno il potere di acquisto nel frattempo perduto, spingendo l’inflazione a medio termine al 2 per cento … ma accadrà solo molto più tardi. Solo a quel punto, Bce alzerà i tassi.

Concetti dalla Signora ripetuti ancora il 4 dicembre. Nonostante il resto del Consiglio si facesse più cauto. Isabel Schnabel alla televisione tedesca definisce l‘attuale tasso di inflazione come “estremamente alto”; poi con Bloomberg, si sbottona: “i rischi di inflazione sono al rialzo … non credo si possa veramente dire, sulla base dei dati odierni, cosa accadrà effettivamente”. Ancor più esplicito de Guindos, il 30 novembre: “le prospettive per l’andamento dei prezzi non sono del tutto chiare … abbiamo sottovalutato lo sviluppo dell’inflazione nel 2021 … c’è il rischio non rallenti così rapidamente e così fortemente come secondo le nostre previsioni”.

La nostra umile opinione (già da molti mesi, lo spiegammo a marzo su Atlantico Quotidiano) è che l’effetto della pandemia sull’inflazione, al principio deflattivo, si sia fatto inflattivo … e che, a fermarlo, non bastino, né Lagarde con le sue frottole, né Mario Draghi coi suoi lockdown e supergreenpass (in proposito, suggeriremmo al lettore di non perdersi un gustosissimo Alan FriedmanOllio, per gli amici -, il quale incolpa dell’inflazione “quella parte della popolazione che volontariamente rifiuta il vaccino”). Senza contare l’effetto inflazionistico provocato dalla svalutazione dell’Euro sul dollaro (Schnabel stima 0,2-0,3 per cento).

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I punti aperti che Bce ha di fronte, sono cinque.

Il primo è il PEPP. Il 28 ottobre, Lagarde ha ripetuto quattro volte che esso terminerà a marzo 2022, poi ancora il e 4 dicembre. Ancora non si sa se, a marzo, accadrà tutto d’un botto (così si direbbe, vista la strana riluttanza ad ammettere che la riduzione già in corso degli acquisti sia un tapering, cioè programmata in vista della prossima conclusione), oppure Bce concederà una coda di acquisti a scendere (chissà per tre-quattro mesi, chissà a coprire le elezioni francesi, del presidente ad aprile e del parlamento a giugno). In ogni caso, comincerà fra quattro mesi massimo. Ciò è inevitabile, in quanto il PEPP è nato per combattere, non la pandemia, bensì l’effetto negativo della pandemia sulle prospettive di inflazione e, oggi che l’effetto della pandemia sull’inflazione da deflattivo si è fatto inflattivo, il PEPP non ha più ragione di continuare. Senza contare che la Fed americana sta per accelerare l’uscita dai propri acquisti e Bce non può non seguirla, pena il peggioramento ulteriore del cambio euro-dollaro coi relativi effetti inflazionistici.

Il secondo è il TLTRO (Targeted longer-term refinancing operations, o operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine): finanziamenti pluriennali alle banche a condizioni straordinariamente vantaggiose. Il 28 ottobre, Lagarde ha promesso di voler “fare tutto il possibile per evitare un cliff edge effect [effetto scogliera] … vedremo anche cosa accadrà a marzo” … cioè dopo la fine del PEPP.

Il terzo è il QE che sopravviverà al PEPP (e verrebbe esteso alla Grecia). Due aspetti. (I) Esso è molto più piccolo. I Paesi del Sud chiedono di raddoppiarlo almeno (da 20 a 40 miliardi mese) così da assorbire tutte le emissioni degli Stati membri nel 2022, come sin qui ha fatto il PEPP; i Paesi del Nord (Weidmann, Koranyi, Knot, Muller, …) chiedono di non decidere, in attesa che Bce accetti di pubblicare previsioni di inflazione finalmente realistiche, cioè sostanzialmente più alte di quelle (ridicole) attuali. Lagarde tentò già tale mossa nel marzo 2020, solo per venire bellamente ignorata dai mercati. (II) Il QE che sopravviverà al PEPP distribuisce rigidamente gli acquisti in base all’azionariato dei vari Stati membri in Bce; al contrario, il PEPP è flessibile: cioè, Bce ne distribuisce gli acquisti dove c’è più bisogno (sui BTp, ovviamente). Il 28 ottobre, Lagarde ha rifiutato ogni impegno, ma ha specificato: “abbiamo dimostrato, col PEPP, che possiamo avere la flessibilità necessaria per realizzare la nostra missione di fornire una direzione di politica monetaria e la sua trasmissione, in modo da realizzare la nostra missione di stabilità dei prezzi. Dobbiamo assicurarci che rimanga così. Lo abbiamo dimostrato e sono sicura che potremo farlo in futuro”.

L’affermazione è imprecisa, perché Lagarde non è del mestiere e parla molto male. Ma il concetto è che l’obiettivo unico di Bce può realizzarsi solo se i prezzi sono stabili, non solo nel complesso dell’Eurozona, bensì pure nei differenti Paesi membri dell’Eurozona. Ad esempio, se la fine del PEPP provocasse una crisi del Btp e, quindi, una fuga dei capitali dall’Italia alla Germania, allora i tassi di mercato sarebbero più alti dei tassi ufficiali in Italia e più bassi in Germania; cioè, la trasmissione della politica monetaria sarebbe, in entrambi gli Stati membri, compromessa; problema cui Bce potrebbe ovviare usando il QE per comprare Btp e non comprare Bund. Funzionerebbe? Forse sì. Purtroppissimo, trasferire al QE ciò che resta la flessibilità del PEPP che muore andrebbe contro le sentenze di Karlsruhe … e non crediamo Bce voglia cercarsi nuove rogne.

Il quarto è la fine del QE. Bce ha promesso di non alzare i propri tassi ufficiali se, prima, non ha concluso tutti i propri programmi di acquisto. Sul punto è preciso de Guindos: “noi diciamo chiaramente che inizieremo ad alzare i nostri tassi ufficiali poco tempo dopo aver terminato i nostri acquisti di attivi”. Egli, pur premettendo di parlare a titolo personale, aggiunge: “io sono persuaso che questi acquisti continueranno per tutto il prossimo anno; oltre questa data, non lo so”; così pure Isabel Schnabel: “è molto improbabile che si verifichi un aumento dei tassi l’anno prossimo”; così persino Bundesbank non chiede ancora di alzare i tassi ufficiali. Sicché, Allianz parla del 2023.

Il quinto è la fine dei reinvestimenti. Gli attivi acquistati da Bce sono obbligazioni che naturalmente scadono e vengono rimborsate. Bce, sin qui, compie degli acquisti netti, cioè compra più obbligazioni di quante ne scadano. Dopo la fine del PEPP e del QE, comprerà esattamente tante obbligazioni quante ne saranno scadute. Perciò, Schnabel dice che “il PEPP non finirà a marzo; probabilmente gli acquisti netti, ma non il PEPP in quanto tale” e, in modo volutamente criptico, suggerisce che potranno essere tali riacquisti ad essere compiuti con flessibilità. Opinione poi assecondata da Lagarde. Il prezzo? Beh, che eguale flessibilità non sia assegnata al QE che rimane.

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Tali cinque scelte dipenderanno dall’inflazione. Se essa scendesse come pensa la Lagarde, allora la fine del PEPP sarebbe un errore. Lo spiega Kristalina Georgieva, la capa del FMI: Bce “dovrebbe mantenere un orientamento di politica monetaria accomodante, e dovrà chiarire presto come ciò sia possibile, alla luce dell’imminente scadenza del PEPP e del TLTRO. Attendiamo con impazienza la decisione del Consiglio direttivo della BCE a fine mese”. In altri termini, è molto improbabile che la mera flessibilità dei riacquisti possa salvare il Btp.

Ma se l’inflazione salisse, allora è molto improbabile che i riacquisti possano continuare, addirittura. Infatti, al proposito interrogata, Schnabel rimanda la palla ai governi ed alla politica fiscale: il Ngeu “ha inviato un segnale molto forte che c’è un forte impegno a stare insieme; non sottovaluterei l’effetto che questo ha, anche sul rischio di frammentazione”. Seguita dalla Lagarde: “gli strumenti sono qui [il Ngeu], sono sul tavolo. Sono pronti ben 800 miliardi. Ora i governi devono decidere come li useranno. Non è mia responsabilità”. La sua unica responsabilità è la stabilità dei prezzi.

Perché? Per via dei trattati e di quanto essi dispongono a proposito del tema, oggi cruciale, della stabilità finanziaria. Bce ha la funzione di assicurare che sia assolto il compito di contribuire ad una buona conduzione delle politiche perseguite dalle competenti autorità per quanto riguarda la stabilità del sistema finanziario, agendo in conformità del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, favorendo un’efficace allocazione delle risorse, rispettando i principi direttivi di prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane nonché bilancia dei pagamenti sostenibile, con l’obiettivo del mantenimento della stabilità dei prezzi. Che accade quando l’obiettivo della stabilità dei prezzi può essere perseguito solo al prezzo di accettare la instabilità finanziaria? Ebbene, ciò che accade è che la stabilità finanziaria deve, senz’altro, soccombere.

Conclusione finanziariamente assurda, ma alla quale i tedeschi sono molto attaccati. Attaccati al punto da averne sopportato conseguenze per loro molto negative: oggi, con le previsioni di inflazione ufficialmente sotto il 2 per cento, tale norma permette a Bce di tenere i tassi bassi, infischiandosene della gigantesca bolla immobiliare in tutto il Nord Europa. Una ragione in più per pensare che gli stessi tedeschi difenderanno tale norma domani, con le previsioni di inflazione ufficialmente sopra il 2 per cento, quando essa impedirà a Bce di comprare Btp.

Certo, Lagarde non ha torto quando, in una intervista alla FAZ, dice: “non c’è stabilità dei prezzi senza stabilità finanziaria. I due sono strettamente interconnessi, sebbene la stabilità dei prezzi sia il nostro mandato principale”. Ma i trattati dispongono il contrario e lei ci può far nulla.

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In altri termini, se l’inflazione salisse, il Btp andrebbe a rotoli e le banche italiane con esso. Gongola il più Caino di tutti, il capo dello SSM Andrea Enria: le banche sono in pericolo perché, quanto ai crediti “le misure di sostegno pubblico legate alla pandemia vengono ritirate”, quanto agli attivi come i Btp “la ricerca del rendimento ha portato a valutazioni eccessive, scollegate dai fondamentali economici”. Già i capitali italiani hanno ripreso a fuggire verso la Germania, come testimonia il saldo Target2 risalito sopra 1,1 trillioni. Già sul mercato si specula su dove andrà lo spread: a 200 punti base, si dice … e poi 300, se Bce non interviene, oppure 400, o chissà. Ricorda il lettore ciò che accadde dopo che, il 12 marzo 2020, Lagarde pronunciò il celeberrimo “we are not here to close the spreads”? Ebbene, accadde che l’Euro in una settimana sarebbe finito … e non finì solo perché, prima della fine della settimana, la stessa Lagarde fece una inversione a U ed inventò il PEPP. Che a marzo muore. Il gran piano di Draghi (accettato dai suoi aventi causa) è assistere a tutto ciò rintanato al Quirinale. Lasciando a Chigi Daniele Franco e, pare, al Tesoro Giancarlo Giorgetti: uno abbastanza bifolco da ignorare tutto quanto abbiamo discusso, oppure veramente deciso a suicidare sé stesso e ciò che resta del proprio partito.

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