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Pacifismo e dialogo non basteranno a difendere i nostri interessi in Libia (né i nostri confini)

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La crisi libica indica, una volta di più, che essere agnelli in mezzo ai lupi può dare soddisfazioni morali, seguendo le esortazioni di Papa Francesco, ma rischia anche di cancellare le poche briciole di influenza che ci restavano da spendere nel panorama internazionale.

L’intervento di Erdogan, le cui forze armate hanno dimostrato un invidiabile grado di efficienza a dispetto delle epurazioni seguite al fallito golpe del 2016, è in grado di causare seri danni alla nostra politica energetica. Se il Sultano turco si fermerà non sarà certo a causa degli appelli alla pace che gli vengono rivolti. Saranno piuttosto i carri armati di Al Sisi e gli aerei di Putin a fargli capire che la Libia non è roba sua. Ammesso, ovviamente, che non sia troppo tardi.

In Italia si è diffusa una mentalità che induce buona parte delle forze politiche, e del loro elettorato di riferimento, a giudicare inutile la salvaguardia dei nostri interessi economici e strategici all’estero. E bisogna aggiungere, purtroppo, che pure la difesa dei confini nazionali viene in molti casi giudicata inutile, quasi che tali confini non esistessero.

L’opposizione alla guerra raggiunge livelli inimmaginabili, come se bastasse opporvisi per scongiurarla in modo definitivo. Eppure, la storia insegna che nella guerra si può essere coinvolti anche se non la si vuole. È sufficiente che uno Stato ben attrezzato dal punto di vista bellico decida di approfittare dell’impreparazione altrui.

Da questo punto di vista Erdogan e Putin dimostrano di essere dei “maestri” del tutto privi di scrupoli. A guidarli entrambi è il loro interesse nazionale, da perseguire a tutti i costi e con ogni mezzo. Magari avendo in mente, sempre in entrambi i casi, la restaurazione di un impero caduto (e rimpianto).

L’Italia non ha alcun impero da resuscitare, ma ha comunque interessi da difendere, soprattutto tenendo a mente la nostra debolezza energetica e in fatto di materie prime. Illudersi, tuttavia, che detti interessi si possano garantire con la costante proclamazione di un pacifismo a senso unico è mera illusione. E faccio ricorso a un eufemismo per non utilizzare il termine “stupidità”.

Pur ammettendo che il pacifismo sia in sé nobile, quello a senso unico che domina sin dal Dopoguerra il dibattito pubblico italiano, con le sue infinite sfumature, non appare un approccio utile in tempi di crisi.

Esso si limita a proporre un percorso condiviso che sia in grado di annullare il pericolo. Al centro del suo discorso si colloca la convinzione che le cause dei conflitti armati siano sempre individuabili con estrema precisione. A generare le guerre sarebbero in primo luogo la povertà e l’ignoranza, e alle due piaghe suddette vanno ricondotti anche il fanatismo (religioso e non), il nazionalismo (nelle sue tante forme) e la volontà di potenza, in particolare quando si manifesta nel desiderio di conquistare spazi territoriali ritenuti di esclusiva proprietà di una certa nazione.

Il problema è che quel sempre dianzi abbinato a povertà e ignoranza non risulta affatto esplicativo. Non è detto, infatti, che una società ricca e ad alto tasso di scolarizzazione sia, ipso facto, anche una società pacifica. E pure un altro termine assai usato, “condivisione”, risulta alquanto scivoloso. Per essere efficace, la condivisione dev’essere realmente totale, senza residui. Se è parziale, come sempre accade, non risolve affatto il problema.

Di ciò sono sempre stati ben consci i vari teorici dell’utopia. Per Marx e seguaci la liberazione degli esseri umani dal bisogno poteva essere realizzata solo a livello globale ponendo fine alla possibilità stessa delle guerre. Su un piano diverso, e fatte le dovute distinzioni, il cristianesimo si pone obiettivi analoghi, nella convinzione che la cultura dell’amore possa infine prevalere ovunque e porre termine ai motivi che generano ostilità sia tra singoli individui sia tra interi popoli.

Una simile visione non tiene conto delle pulsioni aggressive che ogni essere umano si porta dentro, e che ritroviamo puntualmente in natura e nelle altre specie animali che ci circondano. Per staccarci completamente dal mondo naturale e diventare creature dedite solo alla pace e alla fratellanza, dovremmo intraprendere un enorme sforzo pedagogico in grado di educare tutti i nostri simili a intraprendere quella strada. Con il rischio concreto, come si vede in questo periodo così tragico, di sentirci accusare di volontà egemonica, di voler imporre agli altri un’immagine del mondo che è nostra, ma non loro.

Il discorso dell’inclusione a ogni costo, della necessità di convincere altri circa il disinteresse delle nostre scelte, viene dai più giudicato in aree differenti del mondo come l’ennesimo tentativo occidentale di imporre a tutti un certo stile di vita e, diciamolo pure, una certa filosofia. Un atteggiamento realista, pur se meno attraente sul piano delle idee, può risultare più efficace su quello dei risultati concreti.

Ciò significa che non è sufficiente aborrirla, la guerra, per evitare di esserne coinvolti. Oppure, per esprimerci in termini più semplici, non basta essere pacifisti integrali per scoraggiare eventuali aggressori. Se così fosse la storia umana sarebbe priva di conflitti, e vivremmo in uno dei tanti Eden vagheggiati da vari tipi di pensiero utopico.

Sventuratamente è vero il contrario. L’aggressività è una parte, assieme a tante altre, della natura umana. La pace perpetua si può sognare ed è pure bello farlo ma, nel frattempo, sarebbe meglio attrezzarsi per fronteggiare chi a essa non crede. Proprio ciò che nel nostro Paese non si riesce a capire.

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