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Resistenza ucraina inconcepibile, dopo aver sacrificato la libertà per non rischiare il Covid

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In un bell’articolo apparso su Repubblica, una giornalista carica d’anni, ma anche di insegnamenti, Natalia Aspesi, scriveva che la vicenda ucraina segna una sorta di revival della preistoria, le donne e i bambini messi al sicuro, gli uomini a combattere per difenderli. Mi permetterei di correggere l’illustre autrice, parlando di una tendenza primigenia, profondamente radicata nella psicologia maschile, non per nulla fornita di una carica ormonale e di una muscolatura che la rendono idonea alla bisogna, secondo una ispirazione del tutto naturale, difendere la ragione prima della loro sopravvivenza come uomini, le loro donne e la loro prole. Ci si sarebbe aspettati chapeau da parte delle nostre femministe, ma a parlare sono state solo le ultraradicali, quelle che vorrebbero trasferire sui maschi i propri complessi di castrazione, per cui parlare di “loro” donne e prole, significherebbe né più né meno perpetuare la cultura patriarcale delle donne come condannate a servire e proliferare. Solo che sono le stesse donne ucraine, che parlano orgogliosamente dei “loro” uomini rimasti o ritornati indietro dopo averle accompagnate alle frontiere, quindi un senso di appartenenza reciproco, che si realizza in quella formazione naturale che è la coppia, una scelta non una condanna.

Questa è solo bassa polemica, ma c’è ben altro che ci viene dalla lezione ucraina. Dopo una campagna ossessiva circa la esclusiva prevalenza del diritto alla vita rispetto a quello alla libertà, per cui dalla stessa presidenza del consiglio si è legittimata l’idea che la eliminazione totale del rischio di morire di Covid, anche di uno solo, giustificasse la restrizione illimitata della vita sociale; dopo una tale campagna che ha rinforzato l’atavica resistenza a esporre la vita per una qualsiasi causa, fosse anche quella difesa della patria richiestaci dalla Costituzione, la resistenza ucraina, tanto più eroica quanto più condotta con una estrema differenza di forza militare, certo ci entusiasma come spettatori illusi di essere al sicuro, ma al tempo stesso ci risulta incomprensibile, una sorta di testardaggine destinata a prolungare e aggravare la distruzione di un Paese e di un popolo.

Il che si traduce in un invito crescente rivolto al presidente ucraino ad essere realista, ad accettare un compromesso, finanche al prezzo di accogliere tutte le richieste di Putin, cessione della Crimea e delle repubbliche dichiaratesi indipendenti del Donbass, nonché neutralizzazione, dietro la promessa, non si sa quanto credibile, di non puntare ad un rovesciamento del governo di Kiev. Quello che non si riesce o meglio non si vuole capire è che quella ucraina è una sollevazione popolare, originata da una profonda consapevolezza della propria identità storica, linguistica, culturale, religiosa, di cui la nostra resistenza tanto celebrata è solo una pallidissima immagine, a rimorchio com’era dell’avanzata delle truppe alleate. Difendere oggi la patria fino all’estremo sacrificio significa salvarla per un domani, che la lezione della storia ci dice esserci inevitabilmente prima o poi. Consigliare realismo, quando non degeneri in un pacifismo ambiguo, ben noto e praticato dal PCI staliniano, è certo un compito della diplomazia internazionale, ma senza illudersi che qualsiasi tregua, al limite di una sostanziale resa incondizionata, possa essere accettata non dico dal presidente ucraino, ma dal suo stesso popolo.

Oggi non siamo in prima linea, certo le sanzioni decise nei confronti della Russia finiscono per colpirci più pesantemente rispetto ad altri Paesi europei, Germania esclusa. Chiedere di essere tenuti del tutto al riparo è impossibile, toccherà anche a noi stringere la cinghia, ma batterci il petto a mea culpa, come fatto da alcuni giornalisti, a suo tempo contrari alle centrali nucleari e più recentemente ai rigassificatori, non serve, bisognerebbe lo facessero i partiti, i leader, i grandi mezzi di comunicazione, ossessivamente protesi in una campagna contro le fonti fossili, senza farsi carico minimamente di come sostituirle, se non con pale eoliche e specchi solari, difficili da mettere a regime e, comunque, non sufficienti. Ad aggravare il tutto è che questa insufficienza energetica non solo è estremamente elevata, ma si è trasformata in una dipendenza dalla Russia, la quale già per questa condizione ha una netta superiorità strategica.

Che dire dunque della nostra politica che, coltivata con una buona tinteggiatura verde, usa il gas che non è certo una fonte rinnovabile e lo compra dall’orso russo, cioè esattamente da quel Paese per cui la Nato non solo è sopravvissuta ma si è allargata fino ai confini della Bielorussia e dell’Ucraina. Oggi non siamo in prima linea, ma potremo esserlo in un domani più prossimo di quanto nel nostro dolce cullarci in una pace di tre quarti di secolo, siamo disposti ad immaginare. Perché non intervenire in Ucraina? Perché non fa parte della Nato, quindi non può farci rischiare una terza guerra mondiale sfociante in una tempesta termonucleare. Bene, se invece dell’Ucraina fosse una delle repubbliche baltiche, la Nato incapace di contenere una offensiva terrestre della Russia, dovrebbe essere lei a premere il pulsante, ma allora non sarebbe paralizzata dallo stesso dubbio atroce, di dar inizio allo sterminio dell’umanità? La Nato di per sé, se limitata alla copertura costituita dall’ombrello atomico non è sufficiente, chi lo fa scattare compie un autentico suicidio, quindi, ci vuole una difesa di terra, certo dalla Gran Bretagna e dagli Usa arriveranno rinforzi consistenti, in uomini e mezzi, ma il tempo non giocherebbe a favore dell’Alleanza atlantica. Cosa ci cela il futuro, un nuovo sbarco in Normandia?

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