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Tafazzismo Ue sull’embargo: solo l’annuncio fa volare il petrolio (e Mosca ringrazia)

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Von der Leyen presenta il sesto pacchetto di sanzioni ma il Consiglio non lo approva. Decisione rinviata, tra Paesi dell’Est che cercano di smarcarsi e preoccupazioni Usa. Una sanzione a scoppio ritardato doppiamente autolesionistica: Mosca avrà tutto il tempo di trovare altri acquirenti, ma i prezzi aumentano da subito

Prima l’annuncio, poi lo stop. Un euro-pasticcio a mercati aperti. Il balletto sul sesto pacchetto di sanzioni contro Mosca, che include l’embargo sul petrolio russo entro sei mesi e dei prodotti raffinati entro fine anno, presentato ieri mattina dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nientemeno che in plenaria al Parlamento europeo, a Strasburgo, è stato sconfortante. Ci sarebbe da ridere, se non avesse un impatto drammatico sulle nostre bollette energetiche.

Alla fine la decisione è slittata. Al Coreper i rappresentanti permanenti degli Stati membri non hanno trovato un accordo. Anzi, la riunione pare si sia conclusa con “molti contrasti” su diverse misure, hanno spiegato fonti europee. Un ulteriore anno di tempo per il phasing out avrebbero ottenuto Ungheria e Slovacchia, ma evidentemente non è bastato a superare le obiezioni, espresse anche da Repubblica Ceca e Bulgaria. Almeno quattro i Paesi che cercano di smarcarsi.

Non proprio una performance brillante della Commissione e della presidenza di turno francese. Forse già oggi e sicuramente venerdì si terranno nuove riunioni del Coreper, nel tentativo di sbloccare l’impasse e arrivare all’entrata in vigore del pacchetto entro il 9 maggio, giornata in cui la Russia celebra la sua vittoria sul nazismo (quello vero).

Una “ammuina” che rischia di costarci cara. Mentre a Bruxelles si discute, infatti, sui mercati i prezzi di petrolio e gas volano. È bastato l’annuncio della Von der Leyen a far schizzare WTI e Brent di oltre il 5 per cento, rispettivamente a 108 e a 110 dollari al barile, mentre il gas sulla piazza di Amsterdam (riferimento per il prezzo agli utenti finali) è salito a 104 euro/Mwh. Questo il costo del solo annuncio di un embargo a scoppio ritardato.

Scellerata appare non solo la confusione di ieri, ma anche la misura in sé. L’Ue si è inventata un nuovo tipo di sanzione. La sanzione differita: la annuncio oggi ma sortisce pienamente i suoi effetti solo tra sei mesi. Doppiamente autolesionistica, perché Mosca avrà tutto il tempo di trovare altri acquirenti, ma i prezzi aumentano da subito. Insomma, l’effetto paradossale da cui aveva messo in guardia giorni fa il segretario al Tesoro Usa Janet Yellen:

“L’Europa deve chiaramente ridurre la sua dipendenza dalla Russia per quanto riguarda l’energia, ma dobbiamo stare attenti quando pensiamo ad un completo bando europeo sulle importazioni, per esempio, di petrolio. Questo aumenterebbe i prezzi globali del petrolio, avrebbe un impatto dannoso sull’Europa e altre parti del mondo, mentre, controintuitivamente, un impatto negativo molto limitato sulla Russia, perché sebbene esporterebbe di meno, i prezzi per il suo export aumenterebbero”.

In breve: Mosca potrebbe tagliare la sua produzione continuando a ricevere gli stessi introiti, o anche maggiori, grazie all’aumento dei prezzi.

Lo stesso segretario Yellen è tornata anche ieri ad avvertire: “La decisione dell’Ue di tagliare le importazioni di petrolio russo potrebbe far aumentare i prezzi del petrolio, bisogna vedere con quali condizioni verrà realizzata questa scelta”.

C’è da chiedersi, dunque, se oltre alle obiezioni di Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Bulgaria, la frenata di ieri non sia dovuta anche ad una richiesta di approfondimento giunta da Washington. Le preoccupazioni Usa potrebbero essere state riportate dal Tesoro a Bruxelles e alle capitali europee.

Osserviamo da parte Ue una affannosa rincorsa all’approvazione di sanzioni da un lato sempre più divisive, dall’altro il cui rapporto costi-benefici è sempre meno evidente. Sta diventando purtroppo un mero esercizio di virtue signalling, fatequalcosismo per sfogare un’isteria moralistica, scollegato da qualsiasi analisi empirica di efficacia rispetto a obiettivi che non appaiono nemmeno messi bene a fuoco.

Senza dubbio liberarsi della dipendenza energetica dalla Russia nel minor tempo possibile è un obiettivo strategico – come su Atlantico Quotidiano sosteniamo da sempre, anche quando a trascinare l’Europa alla canna del gas di Putin era la cancelliera Merkel, paladina degli eurolirici – ma questo processo dovrebbe avvenire minimizzando i costi per le economie europee e, se possibile, massimizzando i danni per Mosca. Qui sembra invece che si miri all’esito opposto.

Se nei suoi sforzi per spezzare la sua dipendenza energetica dalla Russia, l’Europa non sta ricevendo alcun sostegno dall’Opec, come osserva Bloomberg, non è solo perché Mosca è un autorevole membro dell’organizzazione. Anche se gli altri membri volessero, sostituire oggi le esportazioni di petrolio russo ai Paesi Ue sarebbe “quasi impossibile”, ha avvertito il segretario generale, Mohammad Barkindo. A causa delle sanzioni, ha spiegato, il mondo potrebbe subire una perdita di volumi fino a 7 milioni di barili al giorno. “Sarebbe quasi impossibile compensare una perdita di questa portata”.

Tra l’altro, i prezzi attuali, già alle stelle, sono calmierati dai lockdown in Cina, che stanno colpendo la domanda. Secondo alcuni analisti, l’impatto combinato sulla domanda dell’embargo Ue sul greggio russo e dell’uscita della Cina dai lockdown potrebbe portare il prezzo oltre i 180 dollari al barile (185 per Morgan Stanley).

Oltre al danno, la beffa, perché nel frattempo Cina e India stanno rastrellando greggio russo beneficiando di forti sconti rispetto alle quotazioni di mercato, secondo quanto riporta il Financial Times, proprio nel giorno in cui Bruxelles ha annunciato l’embargo differito. Secondo il quotidiano, ad aumentare gli acquisti sono compagnie indipendenti e società di raffinazione cinesi. Ad esempio, alcuni armatori hanno riferito di accordi con almeno sei superpetroliere, in grado di trasportare ciascuna fino a 2 milioni di barili, per deviare forniture di petrolio degli Urali originariamente destinate all’Europa verso l’Asia, prevalentemente in Cina ma anche in India, ad un prezzo inferiore rispetto al Brent di ben 35 dollari al barile.

La più efficace sanzione contro la Russia sarebbe aumentare la produzione di energia in Occidente, con il nucleare ma facendo ripartire gli investimenti anche negli idrocarburi, così da abbassare i prezzi di petrolio e gas. Con le politiche green da anni stiamo facendo il contrario, spingendo a disinvestire e aggravando quindi il problema strutturale dell’offerta. Non puoi uscire dal nucleare, opporti alle trivellazioni e ai gasdotti, rinunciare al carbone e ai rigassificatori, tutto in nome della follia green, e pensare che le tue politiche non abbiano effetti distruttivi sull’offerta.

Da anni sembra che l’Ue sia caparbiamente impegnata a crearsi in casa la crisi energetica, in cui infatti è precipitata da ben prima del conflitto in Ucraina, dal giugno scorso. E ancora oggi sta stringendo il cappio in cui ha infilato la testa.

In Italia il governo della “Competenza” non ha saputo inventarsi altro che palliativi: lunedì ha portato l’aliquota dell’imposta sui cosiddetti extra-profitti delle società energetiche dal 10 al 25 per cento per finanziarie bonus a famiglie e imprese. Tra parentesi, come si quantifica l’extra-profitto derivante dall’aumento del prezzo della materia prima rispetto a quello ottenuto grazie, per esempio, ad un processo produttivo più efficiente? In ogni caso, una misura comunista e populista, che rischia di aggravare il problema strutturale dell’offerta, sottraendo al settore risorse che invece dovrebbero essere investite per aumentare la produzione di energia. Ci volevano Draghi e Cingolani?

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