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Venezuela, Guaidò rischia il tutto per tutto. Ecco cosa succede dietro le quinte mentre in Europa riparte la fiera dell’ipocrisia

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Martedì scorso alle sei meno un quarto del mattino, nei pressi della base militare “La Carlota” (Caracas), Juan Guaidó, riconosciuto come presidente legittimo del Venezuela da circa 50 paesi tra cui tutte le principali democrazie occidentali, annunciava in un breve video amatoriale l’inizio dell’Operazione Libertà. Facendo appello alle forze armate e alla popolazione civile, lanciava la sfida finale al regime di Maduro in nome della costituzione, invitando soldati e cittadini ad unirsi nel rovesciamento della dittatura. Al suo fianco – in un colpo di scena che lasciava di stucco gli osservatori della realtà venezuelana – il più noto oppositore del chavismo: Leopoldo López, condannato a quattordici anni di detenzione, attualmente agli arresti domiciliari. Agenti ribelli dei servizi segreti lo avevano liberato poco prima su ordine di Guaidó che gli aveva concesso l’indulto. Da quel momento, per tutta la giornata un susseguirsi di scenari convulsi e a tratti confusi: manifestazioni spontanee in diversi punti della capitale, spari e cariche sulla popolazione delle forze di sicurezza e dei collettivi paramilitari, blocco delle comunicazioni in rete da parte del governo. Durante sedici ore nessuna notizia di Maduro, sulla cui sorte cominciavano a diffondersi illazioni più o meno credibili, mentre Guaidó improvvisava comizi giocando al gatto col topo con la polizia e Leopoldo López si rifugiava con la sua famiglia prima nell’ambasciata cilena, poi in quella spagnola. Solo alla sera il chavismo ritornava in onda: Maduro, spalleggiato da alcuni alti ufficiali (ma non tutti), dichiarava sventato il “tentativo di golpe” dell’opposizione “ispirato da Washington”. Il primo maggio si ripetevano le scene del giorno prima: le piazze si riempivano e la repressione si saldava, con almeno quattro morti e decine di feriti. Questi i fatti essenziali dal teatro dello scontro. Proviamo a interpretare cosa sta(va) succedendo dietro le quinte.

Secondo diverse fonti sono tre i personaggi principali attorno a cui si è svolto l’ennesimo capitolo della tragedia venezuelana: il ministro della difesa, Vladimir Padrino; il presidente del Tribunale Supremo, Maikel Moreno; il comandante del controspionaggio militare, Iván Rafael Hernández Dala. I loro nomi sono saliti alla ribalta quando da Washington sono filtrate le prime rivelazioni su un piano deciso tra Guaidó, Trump e alte cariche del regime per trovare una soluzione alla crisi che implicasse il sacrificio di Maduro. Prima Elliot Abrams, poi John Bolton e infine Mike Pompeo dichiaravano più o meno apertamente che era tutto pronto per un’uscita di scena del dittatore grazie alla collaborazione attiva dell’esercito regolare che si sarebbe finalmente schierato con Guaidó. Ma che all’ultimo momento i responsabili della rivolta interna al regime si sarebbero tirati indietro lasciandolo solo nel suo tentativo di mobilitazione. Pompeo dichiarava alla Cnn che per Maduro era pronto un aereo con destinazione L’Avana, ma che i russi avevano bloccato l’intera operazione. Spiega Uri Friedman, su The Atlantic, che secondo i patti il Tribunale Supremo (quello di Moreno) avrebbe dovuto dichiarare illegittima l’Assemblea Costituente fedele al chavismo e scaturita da elezioni irregolari e riconoscere allo stesso tempo l’Assemblea Nazionale di Guaidó. Questo provvedimento avrebbe spianato la strada a Padrino e alle forze armate per agire contro Maduro, arrestandolo e favorendone la fuga. Secondo quanto riferiscono altre fonti, Putin non si sarebbe opposto, una volta ottenuta la garanzia del pagamento dei debiti contratti da Caracas con Mosca. Da qui il via libera all’azione di Guaidó, che non si potrebbe spiegare in assenza di un consenso ai massimi livelli tra le principali potenze coinvolte (Usa e Russia).

Perché allora Maduro è ancora al potere? Cos’è andato storto? Le ragioni principali del fallimento del piano sarebbero due: da una parte la minaccia di ritorsioni da parte degli effettivi cubani infiltrati nelle forze armate e nei servizi segreti venezuelani avrebbe convinto i vertici militari a desistere; dall’altra la resistenza del numero due del regime, Diosdado Cabello, ricercato dagli Stati Uniti per narcotraffico, sarebbe stata decisiva nel far sì che lo stesso Maduro rinunciasse alla via d’uscita che gli era stata offerta. Difficile sapere se quanto esposto sia vero totalmente o solo in parte, ma che questa possa essere una possibile interpretazione degli ultimi avvenimenti è abbastanza plausibile.

Prima di tutto è significativo il basso profilo mantenuto da Mosca in questa fase della crisi: è vero che ci sono state scaramucce verbali con Washington (se intervenite, interverremo) ma in nessun momento la Russia ha messo sul tavolo il proprio peso diplomatico e militare a sostegno del regime chavista. Putin è cosciente che Maduro non può durare e che una guerra per il Venezuela comporterebbe gravi conseguenze a livello internazionale. Meglio forse lasciarlo andare assicurandosi un ruolo di primo piano nella transizione e nella futura gestione delle risorse del paese. In secondo luogo la liberazione di Leopoldo López rappresenta un duro colpo per la pretesa compattezza degli organi del regime attorno al presunto leader: se i servizi che ne controllavano gli arresti domiciliari hanno allargato le maglie della sorveglianza fino a permetterne la presenza a fianco di Guaidó, il segnale politico è piuttosto chiaro. Come è evidente che durante le sedici ore di assenza di Maduro gli equilibri interni ai poteri dello stato sono stati messi in discussione. Da Washington sia il senatore Rubio che lo stesso Bolton hanno fatto sapere a Maduro che al suo posto non si sentirebbero al sicuro, sapendo che tre esponenti di primo piano del suo entourage erano pronti a tradirlo. Tattica? Guerra psicologica? Ammissione implicita di un fallimento? I prossimi giorni forniranno sicuramente qualche risposta al riguardo. Intanto ieri il regime ha organizzato una prova di forza che, nelle intenzioni dei suoi promotori, dovrebbe dimostrare la fedeltà dell’esercito: una marcia militare di prima mattina dall’Accademia Militare al Ministero della Difesa (quello di Padrino) con quattromila cinquecento soldati in fila e Maduro in mezzo.

Sembra, quindi, che per adesso Guaidó abbia perso la scommessa. Ma è proprio così? A suo favore gioca certamente il clima di sospetto e di divisione che è riuscito a instaurare nel seno delle forze armate: chi sta con chi? Di chi può fidarsi Maduro? Chi sta facendo il doppio gioco? Ma anche la destituzione del direttore del Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional (SEBIN), Manuel Cristopher Figuera, che in una lettera aperta ha chiesto “un cambio nelle politiche del governo rivoluzionario”. Una defezione significativa. Ma soprattutto, sarà difficile per Maduro attentare all’incolumità di Guaidó e López senza suscitare una dura reazione internazionale, mentre l’alternativa (fare come se nulla fosse successo) comunicherebbe una sensazione di debolezza.

La liberazione del Venezuela si sta rivelando una corsa a tappe, con accelerazioni improvvise in una conquista graduale di porzioni di territorio occupato da chi detiene il monopolio della forza. Per questo chiunque segua la tragedia venezuelana sa che, in assenza di un intervento esterno, il destino politico di questo paese dipende dalla scelta di campo delle forze armate. Appaiono stucchevoli e nauseanti allora le diatribe teoriche sulla definizione dell’Operazione Libertà, che ad alcuni complici ideologici del socialismo bolivariano piace definire “colpo di stato”, come se fossero la stessa cosa un putsch contro la legalità democratica e una ribellione contro un regime criminale che opprime e affama la sua gente. Altrettanto inutili e retorici gli appelli a una soluzione puramente elettorale della crisi, come se fosse possibile un voto libero e trasparente con Maduro al potere e gli apparati di controllo e repressione del regime in pieno funzionamento. Viene da chiedersi cosa nascondano posizioni così avulse dalla realtà e sicuramente controproducenti da parte di gruppi di contatto, cancellerie “neutrali” ed esponenti politici sedicenti “progressisti”, quasi si trattasse di una normale alternanza di governo e non di una lotta per la sopravvivenza, la libertà e la dignità. Ma ognuno ha la sua agenda e si vede che l’assassinio deliberato e sistematico di una nazione non è ragione sufficiente per cambiarla.

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