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Xinjiang: il gulag di Xi Jinping, il più grande degli ultimi sessant’anni, nel silenzio della comunità internazionale

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Lo Xinjiang è una vasta regione della Cina nord-occidentale, confinante con otto nazioni asiatiche tra cui Afghanistan, Kazakhstan, Russia e India. La sua capitale, Urumqi, fu uno snodo della storica Via della Seta e continuerà ad esserlo nella Belt and Road Initiative (BRI) che rappresenterà il piatto forte della visita italiana del presidente Xi Jinping, a Roma dal 21 marzo per firmare il memorandum d’intesa politico-commerciale con il governo Conte. Difficile pensare che, durante i solenni ricevimenti che lo attendono, ci sarà tempo per parlare di quello che sta succedendo laggiù. Provo a raccontarlo, basandomi sui rapporti ufficiali di organizzazioni umanitarie come Human Rights Watch, sulle scarse testimonianze dei rifugiati riportate dalla stampa internazionale, sulle interviste di riconosciuti sinologi e sulle immagini satellitari che monitorano il territorio cinese.

Lo Xinjang è una prigione a cielo aperto. Cominciamo da qui. Secondo stime ufficiose e variabili, da uno a due milioni di persone prevalentemente di etnia uigura, di stirpe turcofona e di religione musulmana sarebbero rinchiuse in campi di rieducazione e lavoro forzato per ordine di Pechino. La loro colpa risiede nell’essere chi sono e nel credere in ciò che credono. Si tratta del più grande progetto di assimilazione culturale e annichilimento religioso di cui si abbia memoria in epoca moderna. Circondato da un silenzio assordante. Per capire come si è arrivati a questa situazione conviene ripercorrere brevemente le tappe principali della recente storia cinese. Nel 1949 Mao proclama la Repubblica Popolare e dà il via al suo esperimento totalitario rosso sangue. Per lo Xinjiang si materializza il dramma. Un anno dopo il Partito Comunista proibisce la legge islamica e procede all’espropriazione delle terre dei contadini. Durante la campagna contro gli “elementi di destra” (1957-1959) più di mille ufficiali uiguri vengono purgati e le pratiche e istituzioni religiose smantellate. Sono gli anni della grande migrazione dei cinesi di etnia han, che presto riescono a eguagliare in numero la popolazione autoctona, imponendo le proprie leggi ed i propri costumi e controllando ad ogni livello l’amministrazione pubblica e il governo locale. Il Grande Balzo in avanti (1958-1962) porta con sé la collettivizzazione dell’agricoltura, il disastro economico e la fame. I dieci anni di Rivoluzione Culturale (1966-1976) completano l’opera di distruzione dei testi religiosi e delle moschee. Quando muore il Grande Timoniere il controllo si rilassa. Il periodo di Deng coincide con un certo rifiorire delle tradizioni locali e del culto religioso. La letteratura uigura e il senso di appartenenza a una storia condivisa rinascono e, con esse, anche le rivendicazioni di carattere nazionalista. Gli anni ’80 vedono il moltiplicarsi delle proteste e delle rivolte contro Pechino, che portano nuovamente ad un inasprimento della sorveglianza e provocano un circolo vizioso di ribellione e repressione che fa il gioco del Partito Comunista (PCC). L’insurrezione si organizza e nei due decenni successivi il separatismo politico si fa largo tra la popolazione musulmana. Nel 2009 duecento cittadini han muoiono negli scontri. La radicalizzazione religiosa diventa una componente di questo movimento anti-centralista, anche se riguarda in concreto solo alcuni segmenti marginali della nazione uigura. Ma è proprio sulla relazione tra Islam e terrorismo che Pechino fa leva per soffocare definitivamente lo Xinjiang.

Quando Xi Jinping accede al potere assoluto la soluzione finale è alle porte. Nel 2016 nomina al vertice del Partito nella regione Chen Quanguo, l’uomo forte della repressione contro il Falun Gong e il Tibet. Proprio l’esperienza tibetana serve da modello ma con un’intensità senza precedenti. Nell’aprile 2017 cominciano le detenzioni di massa. I campi si aprono all’arrivo di elementi considerati sovversivi, intellettuali, semplici cittadini, intere famiglie. Su undici milioni di uiguri e kazhaki si calcola che tra un dieci e un quindici per cento facciano parte del regime concentrazionario cinese. “Rieducazione attraverso il lavoro” la chiama Pechino, mentre le prigioni sono “centri di recupero vocazionale”. In un raro documento ufficiale reso pubblico proprio in questi giorni Zhongnanhai ammette gli arresti ma ne limita il numero a tredicimila. Un recente reportage del New York Times rivelava la presenza di veri e propri complessi industriali all’interno dei campi. I prigionieri, una volta “rieducati” alla disciplina e alla dottrina del Partito, sarebbero assegnati a unità di lavoro in fabbriche destinate principalmente alla produzione low cost di indumenti che transiteranno lungo la Nuova Via della Seta fino alle nostre comode case. Macabro corollario di questo sistema di lavoro schiavistico (non saprei come definirlo altrimenti) la rete di centri per i figli dei detenuti, che il regime si incarica di educare secondo l’ortodossia ufficiale e in opposizione alle tradizioni islamiche.

Ma i campi sono solo uno degli elementi – il più drammatico certamente – attraverso i quali il Centro esercita il suo implacabile controllo sulla periferia nord-occidentale. Tutti gli aspetti della vita quotidiana nello Xinjiang sono in realtà determinati dalla volontà assimilatrice di Pechino, perfino quelli più intimi. Dal 2014 il PCC impone alle famiglie uigure l’obbligo di “ospitare” nelle loro case, come se si trattasse di persone con vincoli di parentela, un numero crescente di funzionari governativi incaricati di sorvegliare i membri della comunità locale e di riportare eventuali violazioni delle norme di comportamento. Si tratta di controllare se i musulmani osservano l’ideologia e il pensiero di Xi Jinping, se guardano la televisione cinese, se mangiano carne di maiale o bevono alcol, se rinnegano la loro fede religiosa. L’intromissione arriva a livelli inimmaginabili quando i guardiani accompagnano le donne al mercato o danno da mangiare ai bambini. A seconda della gravità dell’infrazione si può essere denunciati alle autorità o finire nei campi di lavoro. Lo slogan che accompagna questo programma orwelliano è “Uniti come una sola famiglia”. Alcune stime situano in un milione la cifra di funzionari inviati dal regime: nemmeno l’URSS staliniana o la Corea dei Kim erano arrivate a tanto. Ma anche nelle strade la sorveglianza è costante. Sotto il mandato di Chen Quanguo le forze di polizia della regione hanno registrato un incremento esponenziale, quintuplicando gli effettivi rispetto a dieci anni fa. Questo implica un susseguirsi di controlli nelle città e nei villaggi con la minaccia continua della confisca dei documenti e di sanzioni. La strategia è quella di integrare nella polizia anche elementi autoctoni in modo da creare sconcerto e divisione nella popolazione locale. L’uso di una tecnologia sempre più sofisticata chiude il cerchio della vigilanza e dell’indottrinamento: raccolta capillare di dati biografici, codici QR per il controllo degli accessi e degli spostamenti, monitoraggio dei contenuti politici e religiosi nei dispositivi elettronici, tecniche di riconoscimento facciale, che il governo cinese sta sperimentando su scala nazionale. I turcofoni come esseri inferiori da rieducare, l’Islam come malattia da sradicare dal tessuto sociale.

Di fronte a questo scempio di dignità e diritti umani sarebbe lecito attendersi una reazione unanime da parte della comunità internazionale. Ma è meglio aspettare seduti. A parte qualche timida protesta in apertura della sessione annuale del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, non risultano denunce sostanziali della situazione da parte delle cancellerie occidentali. Ancora più sorprendente è il silenzio delle sinistre internazionali e del mondo arabo nel suo insieme, sempre così solerti nel condannare qualsiasi azione intimidatoria di Israele nei confronti della popolazione palestinese. Sembra che i musulmani dello Xinjiang siano meno musulmani degli altri, un po’ come i bosniaci e i kosovari massacrati da Milosevic. Solo la Turchia alzó la voce quando le prime notizie sui campi cominciarono a circolare, ma una visita ufficiale di Erdogan a Pechino rimise immediatamente le cose a posto.

Jerome A. Cohen, professore alla New York University ed esperto di diritto cinese, ha definito il caso Xinjiang “il più grande programma di detenzione di massa degli ultimi sessant’anni”.
Buon viaggio, Mr. Xi.

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