Mentre Mosca si stava tirando a lucido, in vista della parata militare per l’ottantesimo anniversario della “Giornata della Vittoria” (9 maggio), in ricordo della fine della “Grande guerra patriottica”, ecco che il presidente Vladimir Putin offriva tre giorni di tregua per il conflitto con l’Ucraina.
A Kyiv, dove dal 2015 si celebra anche l’8 maggio come “Giornata della Vittoria ucraina sul Nazismo”, mentre il 9 maggio si celebra come “Giornata della Memoria”, Volodymyr Zelensky dichiarava di non poter garantire l’incolumità fisica degli ospiti stranieri presenti sulla Piazza Rossa per le celebrazioni moscovite, facendo intuire che il Cremlino potrebbe essere la causa di incidenti e/o attentati al fine di attribuire la responsabilità ai “fratelli” ucraini. Stesso anniversario, differenti narrazioni.
Il mito della vittoria sovietica
Già, mentre tutto il mondo – sia vincitori, sia vinti – ricorda e studia la Seconda Guerra Mondiale, da sempre in Russia si celebra la “Grande guerra patriottica”. Semantica? Certo, ma funzionale ad una narrazione e alla successiva speculazione politica.
Già nel 1945, quando ancora ardevano i resti della cancelleria di Berlino, Stalin cominciò a creare il mito della vittoria sovietica che aveva avuto ragione delle barbarie naziste. Solo l’immane sacrificio del popolo russo aveva impedito ad Hitler di dominare il mondo, come se le potenze occidentali non avessero avuto null’altro che un ruolo marginale.
In questa costruzione retorica ex post i territori annessi nei Paesi baltici e in Europa orientale erano chiamati “liberati” ed il Patto Molotov-Ribbentrop una necessità, per consentire di liberare, già nel 1939, delle popolazioni affini (non si sa come) a quelle russe.
La stalinizzazione
Come non ricordare la prima pagina della Gazzetta del Popolo che, il 18 settembre, uscì con il titolo in prima pagina: “L’armata sovietica avanza per tutelare le minoranze russe”. Non una invasione ma un generoso gesto di liberazione. Il mito della “vera” guerra su un fronte solo, fu fondante per giustificare l’occupazione di gran parte della Mitteleuropa.
Come noto, gli stati e le nazioni recentemente “liberati” furono costretti ad abbracciare il totalitarismo comunista e ogni segno di opposizione democratica venne annientato. Se la spoliazione di quanto era ancora utilizzabile per la ricostruzione dell’Unione sovietica poteva essere giustificabile nel breve periodo, il dirigismo sovietico su ogni branca di attività degli stati “fratelli”, nei decenni successivi, si giustificava solo nel mantenimento del “vallo antifascista”, come era chiamato dalla propaganda il Muro di Berlino.
Come ebbe a dire lo storico ucraino Viatrovych, invero molto su posizioni anti-Mosca, “se la Russia sovietica era l’unica vincitrice del nazismo, questa aveva il permesso di fare qualsiasi cosa”. Come ricorda, acutamente, Lorenzo Riggi, nel 2020:
In epoca sovietica, la vittoria divenne lo strumento prediletto di legittimazione del potere di Iosif Stalin, che personalizzò la vittoria, appropriandosene […]. Malgrado l’importanza del 9 maggio, questa non fu a lungo festa nazionale, già nel 1948 fu abolita come pure le parate militari, vedendo la piena riabilitazione solo nel 1965 sotto la dirigenza di Leonid Breznev. A partire dalla metà degli anni ’50, in piena destalinizzazione, la dirigenza di Krushov sostenne la necessità di “destalinizzare la vittoria”, che subì invece un vero e proprio processo di nazionalizzazione, attraverso il quale il popolo russo fu elevato a baluardo del socialismo e primo tra le nazioni dell’Unione Sovietica.
Il sostegno Usa
In Europa occidentale, da parte dei partiti della sinistra, l’eccezionalità della guerra patriottica fu utilizzata come costante giustificazione dell’esistenza del blocco orientale. Eppure la guerra sovietica non fu solitaria, ma ampiamente – e con poca riconoscenza – sostenuta dagli Stati Uniti.
Tra il 1941 e il 1945 – venne ricordato da Leonardo Coen sul Fatto Quotidiano nel 2022 – gli Stati Uniti hanno fornito un aiuto colossale e decisivo all’Armata Rossa grazie ad un meccanismo escogitato da Roosevelt, la legge affitti e prestiti, che consentiva di fornire grandi quantità di armamenti senza esigere l’immediato pagamento (Lend Lease Act).
Sfruttando questo strumento finanziario, gli Usa inviarono ai sovietici 14 mila aerei, 409.526 veicoli di cui 43.728 jeep, 3.510 mezzi anfibi, 12.161 blindati da combattimento, 136.190 pezzi d’artiglieria leggera, 325.784 tonnellate d’esplosivi, 205 torpedini, 140 cacciatorpediniere, 28 fregate. Inoltre consegnarono 35.800 postazioni radio, 3.400 km di cavi marini, 1.823 km di cavi sottomarini, un milione e mezzo di km di cavi telegrafici. Nella battaglia di Kursk, estate 1943, la più grande battaglia corazzata della guerra, quasi il 20 per cento dei carri sovietici era di fabbricazione angloamericana.
Per agevolare gli spostamenti dalla Siberia alla Russia europea, l’America provvede alla consegna di oltre 2000 locomotive [mentre l’Unione sovietica ne aveva prodotti solo 20] e più di 10 mila vagoni, essenziali per il trasporto truppe ed armi. Ma i soldati devono mangiare e la Casa Bianca ordina alle proprie fabbriche alimentari di preparare 5 milioni di tonnellate di razioni militari. Ci si preoccupa di dare anche 55 milioni di metri di tessuto di cotone, 49 milioni di metri di tessuto di lana, 14 milioni di paia di scarponi. Nel novembre del 1942 Roosevelt invia pure un’intera fabbrica completa per produrre e riparare pneumatici.
Si consideri che con quelle razioni alimentari si potrebbero sfamare circa 14 milioni di bocche per un anno. Nelle sue memorie Krusciov ammise che lo stesso Stalin era cosciente che senza questi aiuti la guerra sarebbe finita in modo differente. Lo stesso maresciallo Zukov dirà al telefono nel 1963 che senza i materiali americani “noi non avremmo vinto la guerra”. L’affermazione è documentata: il KGB, infatti, spiava Zukov e ne intercettava le conversazioni.
Ovviamente questo prestito non venne onorato da Mosca, se non in percentuale irrisoria. Però, nel 2004, quando Putin respirava ancora l’aria di Pratica di Mare, qualcuno a Mosca allestì un Museo degli Alleati e del Lend Lease, adesso, ovviamente, chiuso.
Un trucco propagandistico
Con il consolidarsi del suo potere, Putin iniziò una rilettura del mito della Guerra Patriottica che escludesse ogni altra partecipazione “alleata”. Già nel 2021, presso il Valdai Discussion Club, il presidente russo disse: “Ricordiamo chi ha preso d’assalto Berlino. Americani o cosa? O gli inglesi o i francesi? L’ha fatto l’Armata Rossa”. L’informazione è corretta ed indiscutibile, ma non si può negare che il sostenere che solo “il popolo sovietico ha liberato l’Europa dalla peste bruna” sia parziale ed errato.
Se Putin – sempre in quell’occasione del 2021 – ebbe ragione a dire che “solo vicino a Stalingrado morirono circa 1,1 milioni di persone”, venne comodo obliare il dato che l’NKVD fucilò 13.550 soldati sovietici, l’equivalente di una divisione di fanteria, per supposta diserzione di fronte al nemico. L’esigenza è “retorica”. Ogni grande potenza ha bisogno di un mito fondativo, di un evento che rappresenti la propria identità e il proprio passato e che possa fungere da base per il proprio futuro. Questo è il punto di partenza.
Poi avvenne il confronto militare con l’Ucraina ed ecco che il mito della guerra patriottica fu funzionale a giustificare “l’operazione militare speciale”. In fondo quella di Putin è un mero trucco propagandistico: se siamo i principali antinazisti, significa che chiunque sia contro di noi è nazista.
Da qui una ricostruzione a “tavolino” della storia con una riabilitazione – in parte anche “onesta” e non condizionata – della figura di Stalin verso il quale, in base ad alcune rilevazioni condotte nel marzo 2019, il 51 per cento degli intervistati espresse rispetto, ammirazione o affetto. Stesso discorso per la riposizionata statua di Dzerzhinsky, davanti alla Lubianka. I miti sono importanti per le istituzioni politiche e Putin ne conosce tutti i trucchi. Buon ottantesimo del Giorno della Vittoria!