Sono passati alcuni giorni dal match Trump-Zelensky, che diverrà un case study ma soprattutto un apax nell’ambito delle relazioni internazionali. Analisti di diversa estrazione hanno versato ettolitri di inchiostro per interpretare quella pochade tragica (contraddizione in termini); ogni fotogramma ed ogni lemma è stato sezionato alla ricerca dell’arcano: Zelensky ha sbagliato a presentarsi in semi-uniforme e a parlare in inglese; lo staff di Trump ha “giocato sporco” in scontro impari con l’ospite ucraino.
Tutto giusto, ma non sufficiente, sia ad inserire la vicenda su un teatro più ampio, sia a comprenderla nell’alveo delle correnti di pensiero e di azione delle relazioni internazionali. Facendo un salto concettuale è possibile affermare che le due differenti narrazioni, rese pubbliche nello Studio Ovale, rappresentano uno scontro – non si sa quanto definitivo – tra il soft power e l’hard power. Ma il potere può mai essere… morbido?
Il soft power di Zelensky
Nel 1990, anno di cesura, posto tra gli evocativi 1989 e 1991, Joseph Nye, professore ad Harvard, coniò questo termine in un articolo apparso su The Atlantic Monthly, ripreso nei libri “Bound to Lead: The Changing Nature of American Power” (1990) e “Il paradosso del potere americano” (2002) (p. X), e trattato in specifico in “Soft Power” (2004).
Il soft power è, per dirla con l’autore, “l’altra faccia del potere”, contrapposto e complementare all’hard power, misura storicamente predominante della potenza nazionale tramite indici quantitativi (popolazione, capacità militari reali, Pil nazionali). In altri termini, il potere “dolce” è la capacità di ottenere ciò che si vuole tramite la propria attrattività, piuttosto che per coercizione. È il potere definito “convincitivo” che è la realizzazione – nell’ambito delle relazioni Internazionali – del potere “integrativo” o “dell’amore”, formulato da Kenneth Boulding (Three faces of Power – 1989). Vi è l’illusione che si possa utilizzare un potere, sottovalutando l’elemento della reale e quantitativa “potenza”.
È con gli strumenti di questo potere – non suffragato da “potenza” – che Zelensky ha affrontato Trump, armato solo del suo outfit di ispirazione militare (in verità disegnato dalla stilista ucraina Elvira Gasanova per la griffe Damirli) divenuta, ormai, parte della sua epica e della sua immagine di novello Aiace consapevole dell’imminente sacrificio e delle sue ragioni, che hanno consentito – per tre anni – di far fronte all’invasione russa.
È sempre tramite il soft power che Lech Wałęsa e una quarantina di ex prigionieri politici polacchi, si appellarono a Trump, dopo l’incontro con il leader ucraino, affinché il presidente americano rispettasse il Memorandum di Budapest (1994), attraverso una commovente e aspra lettera nella quale venivano ricordati i meriti di Woodrow Wilson, FDR e, soprattutto Ronald Reagan senza il cui impegno “il crollo dell’impero sovietico non sarebbe stato possibile”.
Poco importa dove fosse la ragione e che quella russa fosse una patente aggressione verso un Paese sovrano e che, quando si parla della minaccia di una ipotetica entrata dell’Ucraina nella Nato (cosa mai veramente programmata), ci si dimentica, colpevolmente, che il 27 maggio 1997 il ministro degli esteri russo firmò un accordo (Nato-Russia Founding Act) per il quale (parte IV) “gli Stati membri della Nato si impegnavano a non dispiegare armi nucleari sul territorio di nuovi Stati membri”, senza contare che la base Nato in Estonia (mai messa in discussione) dista quattro ore in auto dalla prospettiva Nevsky di San Pietroburgo.
L’unilateralismo di Trump
Poco importano queste considerazioni, anche se non bisogna mai dimenticarle. Nello Studio Ovale della Casa Bianca si è avuta l’affermazione dell’hard power. Già nelle prime pagine del monumentale “Gli anni della Casa Bianca” (1980) Henry Kissinger, la cui abilità diplomatica e la cui cultura erano seconde solo al suo ego ed al suo cinismo, scrisse: “l’America non ha amici o nemici permanenti, solo interessi”.
L’impronta che Trump ha dato alla sua nuova amministrazione, al di là degli eccessi nei toni e nel lessico, è quella dell’unilateralismo più spinto. Ecco che l’America first ed il MAGA cessano di essere degli slogan per diventare prassi politica. Di questo, il mondo – piaccia o non piaccia – deve rendersene conto.
L’unilateralismo applicato da Trump ricorda la proiezione geografica di Eratostene che mette al centro il “proprio” mondo, per grande o circoscritto che sia. Questo centro – ben distante dall’essere rappresentato in modo corretto – è ben dettagliato. Più ci si allontana da esso, ecco che i confini si fanno incerti e le proporzioni rimpiccioliscono. Quindi gli interessi sono più relativi.
Precedenti illustri
Trump ostenta la sua reale “potenza”, che diventa suo strumento di “suasione” (“persuasione” verso gli amici, “dissuasione” verso gli avversari). La minaccia è sempre presente nella sua opzione politica.
L’azione trumpiana ha illustri precedenti nella storia americana. Un esempio per tutti: la politica del “grosso bastone” di Theodore Roosevelt che sintetizzava la frase “Speak softly and carry a big stick; you will go far (“Parla gentilmente e portati un grosso bastone; andrai lontano”). Tale politica, nella storia statunitense spesso accomunata al concetto più ampio di diplomazia delle cannoniere, era caratterizzata da negoziati pacifici a cui era affiancata la minaccia del “grosso bastone”, cioè dell’intervento militare. Nel caso di Trump neppure i toni dell’eloquio possono essere definiti softly (chiamare Trudeau “governor”, è una imperdonabile provocazione).
Separare Mosca e Pechino
L’agenda politica del nuovo presidente mira a ridefinire il ruolo dell’America nell’arena mondiale. La politica sui dazi doganali vorrebbe – è da vedere se con successo – costringere i clientes ad aprire impresa in America, abbassando ulteriormente la disoccupazione o a vendere agli stessi il debito statunitense.
Una certa ruvidezza nei confronti dell’Unione europea e della Nato parrebbero consigliati dal fatto che la sponda orientale dell’Atlantico sembrerebbe avere le carte in regola per essere un potenziale competitor degli Stati Uniti, piuttosto che un partner. Questa consapevolezza è, invece, meno presente proprio nel Vecchio Continente. Quindi l’Ucraina potrebbe essere pedina spendibile e sacrificabile se Putin “rompesse” con la Cina che lo sta stritolando.
Ecco il punto nodale. Sempre nel citato libro Kissinger oltre 55 anni fa disse che era scopo degli Usa tener separati Cina e Russia (allora Urss). Così come nel 1972 Nixon aprendo le porte alla Cina di Mao allargò in modo definitivo il solco tra Mosca e Pechino, ecco che Trump potrebbe affrontare il “Dragone”, che sta attuando una decisa corsa agli armamenti.
Non a caso Trump ha dichiarato di voler essere un “pacificatore”. L’ironia del termine è che peacemaker è anche il nomignolo di uno dei più iconici revolver della Colt, cosa che alle orecchie americane non può sfuggire. È comunque palpabile il desiderio del presidente di candidarsi ad un “Nobel”: la sua vanità lo esige. Non bisogna poi dimenticare le parole di Clausewitz per il quale il vero “conquistatore” vuole sempre la pace.
Il rischio di avere tutti contro
Contro tutto e tutti, questa è la cifra che Trump ha dato alla sua politica. La sua sostanziale imprevedibilità che – non è chiaro – sia segnale di un ragionato calcolo o di improvvisazione, al momento risulta vincente, proprio perché spiazzante. Il rischio è che si metta contro troppi soggetti.
Un segnale? Il segnale compatto degli europei a sostegno dell’Ucraina dopo il fatidico scontro allo Studio Ovale, tanto stigmatizzato da Lavrov con le parole: “Tutte le tragedie del mondo hanno avuto origine in Europa o sono accadute a causa delle politiche europee. La colonizzazione, le crociate, la Guerra di Crimea, Napoleone, la Prima Guerra Mondiale, Hitler…” ha portato Trump a “riaprire” a Zelensky. Correttamente Gianclaudio Torlizzi sul Riformista scrive che “Trump si siede al tavolo del poker globale: chi ha più fiches detta la nuova economia”. Questo vale anche per la geopolitica.
In questa contesa globale, con una grande pluralità di attori e nell’ottica hobbesiana dell’homo homini lupus, il soft power entra in crisi e ritornano le vecchie logiche della gestione del potere. Trump – con i suoi azzardi – dimostra quanto si sia lontano tanto dalla fine della storia, quanto dalle evidenze valoriali dello scontro di civiltà, che hanno condizionato le scuole di pensiero negli anni Novanta e all’inizio degli anni Duemila. Egli ci esorta a fare un grande balzo in avanti verso… Tucidide.