Esteri

L’America, la mitra e il turbante: l’Europa non commetta l’errore di Costantinopoli

Il pericoloso senso di superiorità europeo di fronte ai “barbari” di oltreoceano. Sempre meglio un “vassallaggio felice” che una servitù infelice alle dipendenze di Pechino

Instanbul (La7)

Verso la metà del 1400 la civiltà occidentale stava per spiccare il salto verso l’epoca “moderna” e il progresso tecnologico, militare soprattutto culturale che, tra mille imperfezioni e cadute, la avrebbe portata al primato mondiale.

Segno di questo sviluppo furono le nuove tecniche di navigazione che in capo a pochi decenni avrebbero portato gli europei occidentali a fondare colonie e a intrattenere rapporti sia con l’estremo oriente che con il “nuovo mondo” americano. Di fronte ad una civiltà aperta agli oceani, il Mare Mediterraneo, il mare “Nostrum” dei romani, era destinato ad diventare periferico e a perdere l’importanza che aveva avuto in un mondo che finiva allo Stretto di Gibilterra (le “Colonne d’Ercole”).

Le élites di Costantinopoli

Peraltro, alla metà del 1400 l’Impero Romano esisteva ancora ed era arroccato nella sua capitale orientale, Costantinopoli. Gli abitanti dell’Impero d’Oriente infatti definivano se stessi “i romani” (il termine “bizantini” è un termine usato dagli storici a partire dal 1700) e mantenevano un malcelato senso di superiorità culturale verso gli occidentali, la cui civiltà ritenevano essere stata culturalmente “imbastardita” dal contatto con i barbari, e dalle innovazioni (tra cui la pretesa superiorità gerarchica del papa romano sul patriarca di Costantinopoli), apportate nel corso dei secoli alle tradizioni civili e religiose dell’antico impero, cristianizzato dall’imperatore Costantino (274 – 337).

L’avanzata delle truppe degli ottomani, da tempo convertiti all’islam, metteva in serio pericolo la sopravvivenza dell’ultimo residuo dell’impero dei Cesari e molti a Costantinopoli ritenevano un dovere da parte dei cristiani occidentali il portare aiuto a quelli orientali di fronte all’attacco degli infedeli, un aiuto che però essi non ricambiavano con concessioni da parte propria (come sempre si richiede nel mondo delle alleanze internazionali), ma che quasi si degnavano di accettare dall’alto della loro superiore cultura.

Così, quando fu chiesto ai romani d’oriente di unirsi religiosamente al papa e agli occidentali, il rifiuto fu subito netto e la frase attribuita ad un importante funzionario che avrebbe preferito vedere circolare in città il turbante turco piuttosto che la mitra latina, rispecchiava una concezione diffusa tra le élites di Costantinopoli.

Alla fine, con le armate ottomane ormai alle porte, l’unione con il papa e con l’occidente fu accettata obtorto collo nel dicembre 1452, ma troppo tardi. La difesa militare di Costantinopoli e dei suoi troppo alteri governanti non aveva scaldato i cuori degli europei occidentali (come invece sarebbe successo nel secolo successivo ad esempio nel caso del primo assedio di Vienna del 1529).

Solo alcune truppe veneziane e genovesi parteciparono alla difesa della città quando, nel maggio 1453, gli eserciti ottomani la conquistarono e trasformarono gli orgogliosi cristiani d’oriente in servitori (non sempre ben tollerati) della “Sublime porta”, cioè del sultano turco.

Se la causa della caduta finale dell’Impero Romano d’Oriente fu dunque in gran parte l’antioccidentalismo a tutti i costi dei suoi governanti, questa vicenda storica può forse aiutarci a capire quello che è in gioco oggi nei rapporti tra l’Europa continentale e gli Stati Uniti d’America alla luce soprattutto della nuova politica perseguita dal presidente rieletto Donald Trump.

L’antiamericanismo europeo

Le analogie sono forti: a parte i britannici, che conservano un legame storico e culturale profondo con gli statunitensi (pur sempre derivati da una costola inglese), il che consente loro un dialogo basato su principi comuni, nell’Europa continentale è molto diffuso un modo di considerare gli americani molto simile a quello che i romani d’Oriente avevano verso gli occidentali.

Un misto di superiorità di fronte ai “barbari” di oltreoceano (si pensi alle ingiustificate accuse di “egoismo” e di “servitù del denaro” verso una popolazione più altruista di quella europea) e quasi di sussiego di fronte agli impegni militari, economici e sociali degli americani in Europa, come se fossero questi ultimi a dovere ringraziare gli europei per avere accettato i loro aiuti e dovessero subire senza fiatare le “bacchettate” morali di parte delle élites europee tese a dimostrare la irrimediabile inferiorità morale e civile degli Yankee.

La cosa più grave è che questo atteggiamento di antiamericanismo rischia nel medio periodo di consegnare la nostra civiltà ad una posizione di servitù verso culture e potenze invasive e tiranniche, solo per il piacere di non fare nessuna concessione alla potenza americana, che è sicuramente “imperialista” (quale grande potenza non lo è?) ma è soprattutto liberale, dato che il suo “imperialismo” è basato sulla libertà propria e su quella dei propri alleati, con l’unico vincolo della collaborazione, paritaria nei principi e proporzionale al proprio impegno nelle decisioni. Una potenza liberale non perfetta, ma infinitamente migliore delle altre che passa il “convento” rappresentato dal nostro pianeta.

Gli errori di Mattarella

Un’eco di queste concezioni antiamericane “dogmatiche” (che vanno oltre una serena critica) si è avuto ad esempio anche nel recente discorso tenuto in Francia dal nostro presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, già illustrato nei dettagli da Musso su Atlantico quotidiano, un discorso che con tutto il rispetto dovuto alle opinioni del Capo dello stato, contiene a parere di chi scrive alcune affermazioni che non si possono condividere.

Questo sia dal punto di vista storico (la “assoluzione” del comunismo sovietico, il mancato riconoscimento del riarmo come mezzo di pace) che da quello giuridico (lo spazio extra-atmosferico è da sempre libero ed utilizzabile senza bisogno dell’autorizzazione di chicchessia, e quanto al rispetto del diritto internazionale, esso è stato sin qui ineccepibile da parte dell’amministrazione Trump).

Inoltre non possono essere approvati alcuni paragoni più o meno impliciti riferiti alla politica del presidente Donald Trump o alle scelte imprenditoriali del suo collaboratore Elon Musk. La cosa più criticabile del discorso in esame, e a prescindere da esso e parlando più in generale, la cosa più criticabile dell’antiamericanismo europeo continentale, è però la errata ricostruzione (più legata ad una visione “dogmatica” delle cose che ad un’analisi alla realtà concreta) della situazione attuale dell’equilibrio mondiale, una ricostruzione che sarebbe pericolosa se fosse adottata dagli organi di governo legittimati dagli elettori a decidere le scelte politiche strategiche del nostro Paese.

Sistema uni-multipolare

Il sistema mondiale attuale non è infatti un sistema multipolare, ma è un sistema che accanto ad una serie di potenze “parziali” che prevalgono in un determinato ambito territoriale (l’Asia, il Pacifico, il Medio Oriente, l’Europa ecc.) e/o in uno o più settori economici e sociali (la materie prime, i prodotti a basso costo e bassa tecnologia, certe attività particolari, agricole o industriali ecc.) vede un’unica superpotenza “globale” che è presente in tutti questi settori con le proprie attività produttive e finanziare ed è altrettanto presente in tutte le parti del pianeta con le sue attività militari: gli Stati Uniti.

Il termine più adatto è a mio parere quello usato già nel 2014 fa dal politologo tedesco Josef Joffe nel suo libro “The myth of America’s decline” (tradotto in italiano con il titolo “Perché l’America non fallirà”), che chiamò il nuovo equilibrio mondiale uni-multipolare, sottolineando il ruolo primario e “dominante” degli Stati Uniti all’interno di esso, e già prevedendo la crisi della Cina che, se non ci si ferma alle apparenze, è ormai una realtà.

C’è da aggiungere da un lato che le politiche americane, a partire addirittura già dagli ultimi anni della seconda presidenza di Obama, hanno mirato a rafforzare la posizione internazionale del proprio Paese e quindi (in maniera più o meno discutibile) a rendere “di nuovo grande l’America”, e a queste politiche la seconda presidenza di Trump è avviata a dare un’accelerazione decisiva.

L’Ue ha bisogno degli Usa

Dall’altro lato si deve purtroppo constatare che tra le potenze “parziali”, nonostante i toni elevati degli europeisti del vecchio continente non rientra l’Unione europea, la quale non è mai stata così divisa (economicamente e socialmente) come nel periodo attuale.

Si pensi che da dieci anni l’Unione nel suo complesso è a crescita zero, a fronte di uno sviluppo di alcuni Paesi (Germania, Paesi nordici) controbilanciato dall’arretramento di altri (tra cui il nostro) e che dall’entrata in vigore dell’Euro il commercio interno all’unione monetaria (cioè quello tra gli stati aderenti alla moneta unica) è diminuito in maniera evidente (alcune stime arrivano al 20 per cento), perché i Paesi forti (quelli appena citati), agevolati dagli squilibri causati dalla moneta unica, hanno preferito esportare i loro prodotti fuori dall’Unione.

L’amministrazione Trump non accetterà più di investire in Europa (dal punto di vista economico e militare) e di essere quasi costretta a scusarsi per averlo fatto, ma cercherà alleati sul cui consenso convinto si possa contare, partendo da un presupposto che (piaccia o no) è un dato di fatto: non sono gli Stati Uniti ad avere bisogno dell’Europa, ma è quest’ultima ad avere bisogno degli Stati Uniti.

Per questo le posizioni antiamericane, spesso portate avanti con tanto zelo e in nome di nobili principi, possono avere effetti devastanti sul nostro continente, e in particolare sui Paesi più deboli economicamente come il nostro.

L’ira di Achille

Nel suo famoso inizio, l’Iliade ci parla dell’“ira di Achille”, e quindi ci racconta che questa “ira” portò il più famoso eroe greco semplicemente ad incrociare le braccia, rifiutandosi di combattere e che questo rifiuto bastò per lasciare in balia dei nemici l’esercito degli Achei, provocando tra le loro fila “molti dolori” e gettando “in preda all’Ade molte vite gagliarde di eroi”.

C’è veramente da augurarsi che l’eventuale prevalere dell’antiamericanismo non porti gli Stati Uniti ad abbandonare al suo destino l’Europa continentale (con la Gran Bretagna esisterà sempre un rapporto privilegiato), come fecero le potenze occidentali con i romani d’Oriente: la decadenza del vecchio continente sarebbe tanto grave quanto inevitabile.

Gli Stati Uniti non hanno bisogno di vassalli, ma cercano alleati che ne condividano i valori di libertà e democrazia (riguardo ai quali gli europei hanno molte cose da imparare), alleati certo in posizione inferiore per quanto riguarda le decisioni strategiche (militari ed economiche), e questo è inevitabile nei rapporti tra potenze di peso diverso, ma alleati a cui sono garantite insieme al rispetto di quei valori, tutte quelle prospettive di sviluppo economico e tecnologico che oggi solo gli Stati Uniti possono assicurare.

Rischio servitù

La prospettiva di un’Europa priva della presenza americana sarebbe quella di una ulteriore decrescita (“infelice”) e di una servitù, non di un vassallaggio, ma di una servitù vera e propria, alle dipendenze delle potenze non occidentali (Cina, Russia, Paesi arabi o altri) che coinvolgerebbe tanto le popolazioni quanto quelle stesse élites che oggi proclamano con orgoglio il loro volersi distaccare dagli Usa.

Sarebbe quella un’Europa priva soprattutto della libertà e della democrazia (magari confiscate attraverso l’azione di nuovi social orientati secondo i dettami del potere), nella quale non sarebbe possibile criticare le potenze dominanti perché, a differenza di quanto accade con gli americani, la libertà di critica non sarebbe permessa.

I romani d’Oriente, chiamati a scegliere tra la mitra e il turbante, presero la decisione sbagliata; gli europei di oggi possono decidere di bruciare la bandiera a stelle e strisce e di inchinarsi di fronte ad esempio a quella cinese, ma le conseguenze sarebbero devastanti per la nostra civiltà e di esse chiunque dovrebbe sempre tenere conto.