Ecco, era il 14 febbraio 2022 quando Lucio Caracciolo, in un suo intervento su La Stampa, proclamava, con il suo solito tono “definitivo” che Putin – “conservando la ragione” – avrebbe mantenuto forte la “pressione sull’Ucraina finché non fosse sicuro di aver raggiunto lo scopo: riportare quella strategica marca nella sfera d’influenza del suo impero. […] Ma sa che per recuperare Kiev deve prima neutralizzarla, inchiodandola nella terra di nessuno fra sé e la Nato. Per poi riassorbirla, almeno in parte, una volta che gli ucraini si saranno resi conto che l’Occidente non intende morire per loro. Nel frattempo, Mosca vorrà approfondire le faglie nello schieramento atlantico, insanabili perché determinate dalle differenze di interessi e di memorie storiche dei suoi soci. Senza sparare un colpo, o quasi”.
Quindi l’annuncio, pervenuto dai servizi americani che Mosca avrebbe, probabilmente, iniziato un conflitto il 16 febbraio era da relegare nell’ambito delle boutade, provocatorie e senza costrutto, buone solo ad offuscare l’orizzonte delle relazioni internazionali.
Ancora più deciso il giorno dopo, dai microfoni di “Otto e mezzo” ospite di Lilli Gruber, ecco che il Nostro, dopo aver sostenuto che gli americani forniscono assist al presidente russo, proprio soffiando sui venti di guerra, risponde alla giornalista bolzanina che chiede se l’ipotesi dell’imminente scatenarsi di un conflitto fosse credibile: “ma non esiste, non esiste proprio, ammesso che sia mai esistita (la possibilità, ndr)”.
Beh, l’approssimazione e la sicumera di questi interventi, tragicamente smentiti dai fatti, tradiscono antichi antiamericanismi di questo intellettuale di famiglia aristocratica napoletana, formatosi nella frizzante atmosfera del ’68 al Liceo Tasso di Roma e successivamente nell’alveo della Fgci di Imbeni. Se queste affermazioni fossero solo frutto di un personale percorso intellettuale, dovrebbero essere derubricate nell’ambito delle parole al vento. Non è, purtroppo, così!
La dottrina del Contenimento
Tanto in Caracciolo, quanto in altri, prima e dopo di lui si cela una nostalgia per ciò che era la “strategia del contenimento”, o meglio, per la forma più passiva di essa. La cosiddetta “dottrina del contenimento” fu la linea politica lanciata dal presidente Harry Truman nel 1947, secondo la quale la potenza sovietica andava arginata a livello globale, di fronte a ogni possibile tentativo espansionistico.
Dal punto di vista teorico questa dottrina venne elaborata dall’analista George Frost Kennan (1904 – 2005) che sosteneva che l’Urss fosse una potenza insicura di sé, che può essere isolata e bloccata nei suoi presupposti espansionistici. Per arrivare a questo risultato era necessario mantenere un atteggiamento rigido nei confronti dei sovietici i quali, secondo Kennan, sono sensibili all’utilizzo della forza e arretrano di fronte a una possibile minaccia.
Kennan sosteneva, quindi, che lo scopo primario degli Usa doveva essere di impedire la diffusione del comunismo nelle nazioni non comuniste; ovvero di “contenere” il comunismo all’interno dei suoi confini. La dottrina Truman mirava a questo obiettivo, e il contenimento fu uno dei suoi principi cardine. Questo portò al supporto statunitense a regimi in tutto il mondo che bloccassero la diffusione del comunismo.
Il contenimento divenne l’obiettivo primario della politica di sicurezza nazionale statunitense con l’NSC 20/4, approvato dal presidente Truman nel novembre 1948. Questo documento asseriva che l’Urss era motivata dalla sua ideologia a espandere la sua influenza in tutto il mondo, e sosteneva che questa espansione degli interessi era nemica della sicurezza nazionale Usa.
Bipolarismo statico
Ecco qui che i confini stabiliti dopo il secondo conflitto mondiale diventavano il paradigma delle relazioni internazionali. Questa teoria, però, nasconde un retro-pensiero che ha nutrito l’intellighenzia meno atlantista in Italia (e non solo). Il “contenimento” riconosceva, in fondo, legittimità, almeno a livello morale, ad una azione sovietica, almeno potenzialmente, espansiva.
L’Urss andava “contenuta” nelle sue aspirazioni di dominio, mentre ogni tentativo americano – come nel caso della dottrina del roll back di John Foster Dulles – di forzare il gioco, nel tentativo di conquistare campi nello schieramento orientale, andava stigmatizzato.
Non è un caso che Sergio Romano si esprimesse – a metà anni Ottanta – in modo aspro nei confronti della politica degli armamenti del presidente Ronald Reagan, vista come una provocazione finalizzata ad alterare gli equilibri a favore dell’America.
La Guerra Fredda ed il principio del bipolarismo statico, diveniva la stella polare delle relazioni internazionali; che poi i conflitti post coloniali nei più lontani teatri del mondo fossero una alterazione degli equilibri, in genere, a favore dell’Urss non doveva avere rilievo. Quello che contava era la teoria in sé.
È corretta la constatazione di John Lewis Gaddis (“The Strategies of Containment”, 1982), per il quale gli “Stati Uniti si erano comprati un impero, [tramite il potere economico (cfr. Piano Marshall)], l’Urss non avendone la possibilità impose un suo impero con la forza delle armi e dei servizi segreti”. Questa dottrina rispondeva, quindi, anche ai principi di “decadenza dell’Occidente”, dal punto di vista di spinta propulsiva ideale. L’attaccamento di Kissinger alla teoria di Splenger è cosa nota.
Successo e crisi del Contenimento
Nonostante questi limiti il “contenimento” funzionò bene, e spinse il blocco orientale nel baratro delle proprie contraddizioni interne e del fallimento delle sue proposte di “benessere”. Funzionò così bene che innervò l’azione politica del primo post-Guerra Fredda. Quando, il 7 febbraio 1990, il segretario di Stato James Baker, in cambio della riunificazione della Germania, in ambiente Nato, dichiarò che l’alleanza atlantica non si sarebbe allargata di “un pollice” era congruente sia con la situazione sul campo, sia con la “strategia del contenimento”.
Ma proprio nell’apparente momento di successo, questa dottrina entra in crisi e sono i fatti – quel misto di geografia e cronologia, di vichiana memoria, che fa la Storia – che ne segnano la fine. Se il Contenimento aveva un senso nel febbraio 1990, quando erano ancora sul campo sia l’Unione Sovietica, sia il “Patto di Varsavia”, esso non aveva più ragion d’essere nel dicembre 1991, dopo lo scioglimento (1 luglio) dell’alleanza militare e dopo la dissoluzione dell’Urss stessa (31 dicembre).
Proprio perché il potere non ammette vuoti, ed il sistema di influenza di Mosca era collassato, esso non poteva non essere sostituito dall’unica superpotenza sopravvissuta. Questo era chiesto, sia dai Paesi ex-satelliti dell’Urss, ormai ostili nei confronti di quelli che furono loro “fratelli”, sia dalla logica del potere internazionale, almeno dopo la pace di Westfalia.
La nostalgia del bipolarismo
Va detto che anche la dottrina del “realismo offensivo” formulata anni dopo la fine della Guerra Fredda è una figlia illegittima della strategia del “contenimento”. Quando si afferma il diritto di ogni potenza emergente o risorgente di alterare lo status quo ante, senza che sia considerata legittima ogni opzione tesa a contrastare questo moto “rivoluzionario” (ogni atteggiamento “offensivo” è “rivoluzionario” in re ipsa) ecco che si ripropone la nostalgia per il bipolarismo.
Condizione geopolitica, attualmente, non realizzabile, visto che le velleità militari di Mosca si scontrano con la sua condizione di subalternità economica e demografica nei confronti della Cina, attore politico storicamente ostile alla Russia.
Non è che Caracciolo, tre anni fa avesse errato previsioni, cosa evidente. Il fatto è che il suo modo di pensare è nostalgico, quindi superato. I suoi sprezzanti giudizi potrebbero essere ben letti tramite la lente interpretativa dell’Amleto: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia”.