Esteri

Su Hamas serve una “vittoria totale”. Condizioni per due Stati non ci sono

Parla Daniel Pipes: soluzione a due Stati accettata in linea di principio, ma nessuna delle condizioni soddisfatta dai palestinesi. Putin “uomo sovietico”

Guerra Israele Palestina (1) © kovalchuk, ffikretow e sezer ozger tramite Canva.com

La “vittoria totale” su Hamas, la soluzione a due Stati, il ruolo dell’Iran e la risposta debole dell’Occidente di fronte a tutti i rivali: Russia, Iran, Cina. Di questo abbiamo parlato con Daniel Pipes, storico e politologo, uno dei maggiori esperti di politica estera, con particolare riferimento a Medio Oriente, islamismo e jihadismo. Fondatore e presidente del Middle Eastern Forum, è stato direttore del Foreign Policy Research Institute. Professore all’Università di Chicago, a Harvard e al Naval War College, è autore di centinaia di articoli e numerosi libri.

Vittoria totale su Hamas

DC: Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu parla ripetutamente di “vittoria totale” contro Hamas. Come autore della dottrina della vittoria di Israele, la prego di interpretare questa affermazione

DP: Ad oggi, 5 aprile, 182° giorno del conflitto Hamas-Israele, ho contato che Netanyahu ha menzionato la vittoria in 52 dichiarazioni, e che in alcune di queste vi abbia fatto riferimento 11, 14, 15 e persino 16 volte, per un totale di 153 volte. E questo è solo ciò che risulta in inglese. Spesso aggiunge un aggettivo per rafforzare la parola vittoria: completa, chiara, assoluta, decisiva, piena e clamorosa, ma totale è il termine preferito, che compare 73 volte. È un record straordinario; mi chiedo se abbia un qualche parallelo con altri leader.

Interpreto questa enfasi retorica in diversi modi: (1) un segnale agli israeliani che ha imparato la lezione del 7 Ottobre e che sarà molto più duro in futuro e che merita di continuare a essere il loro primo ministro; (2) un segnale agli Stati Uniti e agli altri governi amici, che non dovrebbero preoccuparsi di fare pressione su di lui per ridurre le ostilità a Gaza; e (3) un avvertimento ad Hamas che sarà distrutto.

Cosa significherà la vittoria totale sul campo? Date le pressioni interne per la restituzione degli ostaggi israeliani sotto il controllo di Hamas e le pressioni internazionali per desistere dall’attaccare Hamas, mi aspetto che si trovi un qualche tipo di accordo, forse sulla falsariga delle due partenze dell’OLP dal Libano nell’agosto 1982 e nel dicembre 1983, quando Yasser Arafat e i suoi scagnozzi fecero rotta verso la Tunisia. Questo non rappresenta certo una vittoria totale, ma potrà essere sufficiente.

La soluzione a due Stati

DC: La “soluzione dei due Stati” è una politica statunitense permanente?

DP: Sì. Per coincidenza, ieri ho pubblicato un articolo, “My Six-Step Plan for a Two-State Solution”, in cui sostengo che (1) i governi statunitense e israeliano hanno entrambi accettato uno Stato palestinese, quindi il dibattito è finito; (2) entrambi hanno imposto ampie condizioni prima di riconoscere tale Stato, nessuna delle quali è stata soddisfatta dall’Autorità palestinese; e (3) i due governi dovrebbero smettere di discutere e unire le forze per fare pressione sull’Autorità palestinese affinché soddisfi tali condizioni.

L’aggressività iraniana

DC: Come dovrebbe rispondere l’Occidente alle numerose aggressioni di Teheran, tra cui gli attacchi di Hamas a Israele del 7 ottobre, gli attacchi degli Houthi al commercio marittimo del Mar Rosso e gli attacchi per procura alle forze statunitensi?

DP: Con severità. Compresi gli avvertimenti, l’uso della forza a livello tattico, il sostegno ai dissidenti del regime e, infine, la distruzione dell’infrastruttura nucleare iraniana. I mullah hanno quasi la bomba; cosa stiamo aspettando?

Risposta debole

DC: È favorevole al disimpegno degli Stati Uniti dal loro ruolo globale, iniziato nel 2009, o auspica un ritorno a un ruolo più attivo?

DP: Ho nostalgia dei vecchi tempi. Gli Stati Uniti, anche quando erano più deboli, ad esempio sotto Jimmy Carter, avevano un ruolo più solido e prevedibile nel mondo. La sinistra woke e la destra “MAGA” mi sconcertano in egual misura: la prima sostiene Hamas e la seconda non si oppone a Putin.

DC: Immaginate che, mentre la Russia continua ad aggredire l’Ucraina, l’Iran chiude il Golfo Persico e la Cina impone un embargo a Taiwan, quale risposta occidentale vi aspettereste?

DP: L’invasione della Russia è un disastro umanitario ma un vantaggio strategico: la Nato si è allargata e ha riscoperto i suoi scopi, gli arsenali sono in crescita, le popolazioni occidentali comprendono meglio che gli interessi vitali devono essere difesi militarmente.

Detto questo, l’inadeguato sostegno all’Ucraina, la riluttanza a rimuovere la minaccia Houthi dal Mar Rosso e la politica supina nei confronti di Teheran non mi riempiono di fiducia. Il fatto che tutti e tre, Russia, Iran e Cina, vedano limitate finestre di opportunità davanti a sé, rende la situazione ancora più spaventosa.

L’invasione dell’Ucraina

DAVIDE CAVALIERE: Suo padre, Richard Pipes, è stato uno degli analisti e degli studiosi più lucidi della Russia e dell’Unione Sovietica. Quale sarebbe stata la sua reazione all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin?

DANIEL PIPES: Da storico, mio padre sottolineò le continuità tra le diverse epoche della Russia, in particolare quella zarista e quella sovietica. Sebbene sperasse che la Russia post-sovietica avesse la possibilità di rompere con la sua travagliata eredità, non era affatto sorpreso che Vladimir Putin fosse regredito alla sua forma originaria – antidemocratica, repressiva ed espansionistica.

Previde anche che la Russia non avrebbe mai permesso all’Ucraina “di collegarsi istituzionalmente con l’Occidente”. Dunque, il 24 febbraio non lo avrebbe sorpreso e avrebbe sostenuto appassionatamente Kyiv nella guerra.

La minaccia nucleare

DC: Sulla base del suo lavoro, quanto dovremmo prendere sul serio le minacce nucleari di Putin?

DP: Molto seriamente. Putin è un uomo sovietico, ha vissuto i suoi primi 39 anni in Unione Sovietica, è salito al grado di tenente colonnello dell’intelligence estera del KGB e ha pubblicamente deplorato la fine dell’Urss. È stato plasmato dalle dottrine sovietiche e continua a rifletterle.

Una di queste dottrine riguarda l’uso delle armi nucleari. Nel 1977, mio padre rivelò tale dottrina in un articolo della rivista Commentary, “Why the Soviet Union Thinks It Could Fight & Win a Nuclear War”. Scrisse:

La dottrina strategica adottata dall’Urss negli ultimi due decenni richiede una politica diametralmente opposta a quella adottata dagli Stati Uniti. (…) L’idea di una guerra nucleare estesa è profondamente radicata nel pensiero sovietico, nonostante sia stata scartata dagli strateghi occidentali che pensano alla guerra come a uno scambio di due colpi. (…) Mentre noi consideriamo le armi nucleari come un deterrente, i russi le vedono come un “costringente”.

E concludeva: “C’è qualcosa di innatamente destabilizzante nel fatto stesso che noi consideriamo la guerra nucleare irrealizzabile e suicida per entrambi, mentre il nostro principale avversario la considera fattibile e vincente per se stesso”. A distanza di quasi mezzo secolo, quell’articolo merita un’attenta lettura da parte dei responsabili politici occidentali.

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