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Cosa resta di un’emergenza divenuta ordinaria: la rovina economica e le ombre sulla missione russa

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Risultano del tutto fuori luogo i toni trionfalistici usati dalla maggior parte della stampa per celebrare l’imminente fine dello stato d’emergenza. In effetti, tra le pieghe delle norme predisposte dal governo, emergono particolari che dovrebbero per lo meno allarmare chi punta al ritorno allo stile di vita archiviato due anni fa e non al suo surrogato dominato da mascherine, adempimenti sanitari e lasciapassare eterni. Infatti, sopravvive tutto l’apparato pandemico che potrebbe essere adattato anche in maniera più espansiva come dichiarato in conferenza stampa da Draghi. Detto brutalmente, ciò significa che all’espansione dell’apparato (termine che suona sempre sinistro) corrisponderebbe una nuova contrazione delle libertà e dei diritti. Insomma, l’unica risposta in caso di recrudescenza delle infezioni sarebbe sempre e solo quella di vessare i cittadini anche di fronte alla ormai conclamata inutilità di questa impostazione al limite del persecutorio.

Che questa sia l’intenzione è confermato anche dalle parole del ministro Speranza, ringraziato da Draghi a nome di tutti gli italiani per lo “straordinario lavoro” svolto (per quel che vale, non in nome dell’autore di questo pezzo), il quale, naturalmente, gongola al pensiero che l’organizzazione esistente da emergenziale diventi ordinaria e non venga affatto smantellata. “Con questo decreto facciamo una scelta di gradualità, facciamo una scelta di apertura sicuramente ma passo dopo passo che ci consente di guardare complessivamente con più fiducia al futuro”. Fin qui siamo al solito frasario stereotipato che ha dispensato durante l’era pandemica ma il passaggio più interessante è un altro e sembra una teoria estrapolata dal suo libro mai arrivato sugli scaffali: “In questi anni si è messo in contrapposizione il tema dello sviluppo economico con le misure di sicurezza sanitaria. Penso che la storia recente dimostri esattamente il contrario: cioè un Paese più forte e più sicuro sul piano sanitario è anche un Paese che cresce di più e meglio”. Be’, al di là del fatto che sorvola sul piccolo particolare che le restrizioni prolungate stressano il sistema democratico e comprimono pesantemente i diritti fondamentali, quella del ministro appare più come una congettura, perché il disastro economico provocato dalle sue “misure di sicurezza sanitaria”, spesso insensate e illogiche, è sotto gli occhi di tutti.

Il Tempo, per esempio, ha ricordato che solo a Roma hanno chiuso ben 4400 imprese coinvolte in attività di ristorazione o nella gestione di bar con la perdita di 24 mila posti di lavoro. Non va meglio il settore alberghiero che risente della cronica assenza dei turisti frenati da certificazioni, tamponi a raffica e regolette cervellotiche. Insomma, se questo è il modello economico di Speranza, c’è sicuramente qualcosa da rivedere perché conduce direttamente alla rovina. Naturalmente, nessuno dei giornalisti presenti si è permesso di osservare alcunché e il teorema non dimostrato è passato in cavalleria. Probabilmente, il concetto sarà sviluppato nel prossimo memoir del ministro il quale, sostenuto dai suoi consulenti, ha già avvisato tutti che le decisioni saranno prese sempre sulla base del “quadro epidemiologico” e che, quindi, non scatterà “nessun automatismo” anche successivamente al 31 marzo. Tradotto: i diritti dipendono dal volere del governo che può ripristinarli o sospenderli a suo piacimento.

Tanto è vero che non si parla mai esplicitamente di abolizione della carta verde che da strumento eccezionale si è trasformato in ordinario con la possibilità concreta di estendere l’ambito di applicazione anche ad altri settori con sempre maggiore invadenza dello Stato nella vita dei cittadini. Pure per questo motivo, lo scenario prefigurato dal duo Draghi-Speranza è poco incoraggiante, e dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che pure il faticoso allentamento delle restrizioni contiene una sorta di salvacondotto per l’armamentario sanitario.

A dare manforte al gradualismo del ministro, peraltro, ci stanno pensando tutti i virologi mediaticamente più esposti in questi mesi. Il richiamo delle restrizioni è troppo forte per scoraggiarli. Chi si spinge sempre più avanti degli altri è Walter Ricciardi che ha descritto il solito quadro a tinte molto fosche: “Senza mascherine al chiuso fino a giugno, l’estate è a rischio. Rispetto agli anni scorsi anche la bella stagione nasconde delle insidie”. Si è riaffacciato sulle scene anche Massimo Galli il quale, da par suo, ritiene sconsiderate queste timide riaperture e preconizza un autunno complicato. Eppure di queste previsioni catastrofiche, che poi non si sono fortunatamente avverate, ne sono pieni gli archivi. Nonostante ciò, si prosegue con i toni apocalittici senza considerare il prezzo elevatissimo già pagato dalla popolazione che, di colpo, si è ritrovata molto meno libera, più povera e tendenzialmente depressa.

Adesso che la malattia sta diventando endemica, che il contagio zero si è rivelato un traguardo irrealizzabile e che le priorità sono diventate decisamente altre, la narrazione tremendista risulta ancor più ingiustificata. Peraltro, se si volesse creare un link tra la pandemia senza fine e il conflitto in corso in Ucraina, si potrebbe approfondire la questione della missione della delegazione putiniana, composta sia da personale medico che militare, giunta in Italia durante il periodo del primo durissimo lockdown. I particolari che emergono dalle cronache non sono propriamente lusinghieri. Per esempio, l’ex ministro Bellanova ha dichiarato al Foglio che l’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, non avrebbe informato i suoi colleghi di governo né convocato il Cdm per discutere della questione. “Ci sono fatti che andrebbero spiegati da parte dell’ex premier”. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Intanto, il Copasir che vuole approfondire la faccenda ha ascoltato Conte il quale, dal canto suo, ha chiarito che la missione si sviluppò solo sul piano degli aiuti sanitari e sotto la costante vigilanza dei nostri sistemi di intelligence. Meno rassicurante è stata la versione di Miozzo, all’epoca capo del Cts, che al Corriere della Sera ha rivelato quale fu l’approccio dei russi guidati dal capomissione, il generale Kikot, con cui si interfacciò in quelle ore convulse: “L’esordio fu particolarmente intrusivo, ruvido. Parlavano come se dovessero bonificare Chernobyl dopo l’esplosione nucleare”. Peccato che questi particolari emergano solo ora andando ad avvalorare i dubbi di chi aveva sempre guardato con scetticismo l’anomala operazione “Dalla Russia con amore” condotta all’interno di un Paese aderente al Patto atlantico.

Ora, al di là dell’evidente mossa propagandistica orchestrata da Mosca per esibire la propria forza prestata in favore di una nazione occidentale alla ricerca disperata di materiale sanitario che al momento scarseggiava (e che poi si è rivelato insufficiente al bisogno), gli interrogativi sul senso complessivo della missione restano. Forse, prima o poi, la storia di questi anni pandemici andrà riscritta raccontando finalmente la verità o qualcosa che almeno le somigli. Anche il motivo per cui, con gli italiani barricati in casa, ci fu una sfilata militare di una potenza straniera (e oggi a noi ostile) sul territorio italiano. Sembra un film di Monicelli, in bilico tra il tragico e il sarcastico, invece è quello che incredibilmente è accaduto sotto i nostri occhi solo due anni fa.

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