Esteri

A Bali prove di reset Cina-Occidente sotto regia Usa. Ma a chi conviene?

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È molto interessante osservare come si sta muovendo Xi Jinping nei suoi primi incontri internazionali subito dopo aver ottenuto dal Congresso del Partito comunista il sospirato terzo mandato, di fatto una incoronazione a imperatore.

Se fino al Congresso il presidente cinese ha mantenuto nei confronti dell’Occidente una postura da “falco”, assertiva se non aggressiva, tale da mettere fuori gioco – non solo metaforicamente – i suoi avversari interni, a Bali si è presentato con modi e toni più concilianti (e senza mascherina), a cominciare dall’incontro con il presidente Usa Joe Biden, salutato da entrambi con un caloroso “è un piacere rivederti”.

Pochi giorni fa la visita a Pechino del cancelliere tedesco Olaf Scholz, che la leadership cinese considera il plenipotenziario dell’Ue. Al G20 di Bali, Xi ha incontrato praticamente tutti i leader occidentali, in quello che è sembrato un vero e proprio reset nelle relazioni tra Cina e Occidente cercato da ambo le parti, sebbene per motivi diversi.

Bilaterali di Xi con tutti

L’ampio bilaterale di tre ore con il presidente Biden ha dato il la a tutti gli incontri successivi, a sottolineare la regia di Washington dietro il complessivo re-engagement. Xi ha visto i leader di Australia – con cui pure è ai ferri corti da anni – Canada, Francia, Italia, Spagna e Olanda.

Saltato solo il bilaterale con il primo ministro britannico Rishi Sunak, ma solo perché l’incidente del missile caduto in Polonia ha terremotato tutte le agende dei leader Nato.

Downing Street ha infatti precisato che gli “slittamenti dei tempi di entrambe le parti” hanno portato alla cancellazione dell’incontro, che tuttavia Londra avrebbe voluto mantenere in agenda e che, fa sapere, ritiene importante. E parliamo del Regno Unito, uno dei Paesi più ai ferri corti con Pechino, forse solo dopo Usa e Australia.

A rischio fino all’ultimo, per gli stessi motivi, anche il bilaterale di Xi con il nuovo premier italiano Giorgia Meloni, che invece si è tenuto in extremis, per la forte volontà di entrambi. E con un certo risalto, nient’affatto scontato, anche sulla tv di stato cinese Cctv, che ha mostrato la sala con le bandiere cinesi e italiane.

Quasi caloroso, per quanto possibile, il presidente Xi con Meloni. Al termine del colloquio l’invito in Cina, accettato dal nostro premier. Non deve sorprendere, perché tutto avviene sotto la regia di Washington – nella quale Meloni è apparsa già integratissima. Sono gli Usa a dirigere l’orchestra e hanno deciso di cambiare musica, almeno in questa fase.

La richiesta dell’Occidente

Tutti i leader occidentali hanno chiesto al presidente cinese di esercitare pressioni sul presidente russo Vladimir Putin per porre fine alla guerra in Ucraina. L’intenzione più palese di questo tentativo di reset con la Cina è di indurla a giocare un ruolo da potenza responsabile – ora che i cinesi stessi hanno manifestato perplessità e segni di insofferenza rispetto all’avventura russa.

Questo ruolo si dovrebbe tradurre in un allentamento di quell’asse con la Russia – un’alleanza che nel febbraio scorso, in un comunicato comune, Xi e Putin avevano definito “senza limiti” – nato con l’ambizione di ribaltare l’ordine internazionale a guida occidentale.

Insomma, l’intento è allontanare Pechino da Mosca. Un segnale in questo senso, sia a Washington che alla leadership russa, è arrivato alla vigilia dell’incontro con il presidente Biden, quando via Financial Times è stata fatta filtrare l’irritazione di Xi nei confronti di Putin, reo di non avergli detto tutta la verità sulla guerra in Ucraina.

Putin isolato

Sembrano trascorsi più di due mesi da quando, a metà settembre, Putin e Xi incontrandosi a Samarcanda avevano parlato di “orribili tentativi dell’Occidente di imporre un mondo unipolare”.

Se mettiamo insieme tutti i pezzi del puzzle – l’irritazione di Xi e i suoi numerosi bilaterali con i leader occidentali a margine del G20, l’assenza del leader russo a Bali, rappresentato dal ministro degli esteri Lavrov (protagonista all’arrivo di un curioso giallo sul suo stato di salute) – ne ricaviamo un quadro molto diverso rispetto ai primi mesi di guerra in Ucraina, quando sembrava che la simpatia della gran parte del mondo non-occidentale, Cina e India in testa, andasse alla Russia e non all’Occidente.

Ora è Putin ad apparire isolato e indebolito. Paga probabilmente l’evocazione dell’uso dell’arma nucleare, ma soprattutto la percezione diffusa – in questo caso coincidente con la realtà – che la sua campagna militare sia un fallimento.

Il massiccio attacco missilistico lanciato ieri da Mosca contro l’Ucraina, proprio mentre si teneva il G20, va letto anche come reazione rabbiosa di Putin ai mutamenti in atto.

Una finestra per i negoziati

Chiaro, dunque, cosa si aspettano gli Usa e i loro alleati da Pechino. Un “ruolo di mediazione più importante nei prossimi mesi”, tale da porre fine alla guerra in Ucraina.

A Washington si pensa che con l’arrivo dell’inverno, riducendosi fino quasi a fermarsi i combattimenti, potrebbe aprirsi “una finestra per una soluzione politica, o almeno l’inizio dei negoziati”.

Come ha spiegato ieri il generale Mark Milley, capo di Stato maggiore Usa, da una parte la Russia ha fallito “ogni singolo” obiettivo e le sue forze stanno “soffrendo tremendamente”, dall’altra è “bassa la probabilità” che l’Ucraina possa liberare militarmente tutto il suo territorio, compresa la Crimea. Questo dovrebbe indurre Mosca e Kiev al dialogo.

Così si spiegherebbe il re-engagement di Pechino a Bali, nel tentativo di esercitare la massima pressione diplomatica su Mosca nei prossimi mesi.

Cosa si aspetta Xi dall’Occidente

Ora il punto è: cosa otterrebbe in cambio Xi Jinping? Cosa si aspetta dal re-engagement con l’Occidente? E soprattutto: è disposto a barattarlo con il suo asse “quasi senza limiti” con Mosca? Alla prima domanda ovviamente è più facile rispondere.

Dall’Unione europea si aspetta sempre la stessa cosa: che si sganci dall’orbita Usa. E lo ha detto piuttosto esplicitamente, sollecitando il presidente francese Emmanuel Macron (ma probabilmente anche gli altri leader Ue) a spingere l’Unione europea verso una “politica indipendente e attiva” (indipendente da Washington, si intende) e a rafforzare la cooperazione tra Pechino, Parigi e Bruxelles.

I fallimenti russi in Ucraina e il gap tecnologico devono aver convinto il leader cinese di non avere ancora, insieme alla Russia, la capacità di dare una spallata alla leadership globale dell’Occidente. Dunque, vuole guadagnare tempo e convincere Washington quanto meno ad allentare il cordone sanitario tecnologico che sta alzando attorno alla Cina.

Dopo avere anch’egli adottato in questo triennio toni da Guerra Fredda e spinto il processo di decoupling, favorito anche dai continui lockdown, Xi sembra ora fare dietrofront, per lo meno nella retorica.

I muri tecnologici

Un chiaro segnale è stato, a Bali, il suo richiamo al piano d’azione adottato dal G20 nel 2016, su proposta di Pechino, allora presidente di turno, per creare un mondo sempre più integrato, restringendo i gap digitali tra i Paesi più sviluppati e quelli in via di sviluppo. Tradotto: i gap tra la Cina e l’Occidente.

Non è casuale il richiamo ad un documento del 2016. Si tratta di un’epoca pre-pandemica, ma soprattutto precedente alla presidenza Trump, quando ancora la “globalizzazione con caratteristiche cinesi” procedeva a gonfie vele e nessuno dei leader occidentali mostrava consapevolezza dell’approccio predatorio di Pechino. Anzi, qualcuno a Berlino guardava a Xi Jinping come ad un alfiere dell’ordine liberale.

Il leader cinese parla di multilateralismo e cooperazione, auspica un G20 “inclusivo e giusto” rispetto all’economia digitale, critica chi vuole costruire “alti muri” per proteggere “piccoli giardini”.

La Cina non vuole il decoupling, la separazione delle economie. “Il mondo è uno”, ha detto Xi al premier olandese Rutte (ma probabilmente anche agli altri leader) ed è “necessario contrastare la politicizzazione delle questioni economiche e commerciali e mantenere la stabilità delle catene industriali e di approvvigionamento globali”.

Tradotto: Pechino chiede di fermare le guerre tecnologiche, che l’Occidente non ostacoli il suo accesso ai microchip più avanzati. Il chiaro riferimento è alle restrizioni Usa volte a scoraggiare o impedire del tutto la vendita alla Cina di componenti ad alta tecnologia.

Solo lo scorso mese gli Stati Uniti hanno introdotto restrizioni a 31 compagnie e istituzioni tech cinesi, vietando di fornire loro tecnologie Usa. Inoltre, Washington potrebbe presto imporre ulteriori limitazioni alle esportazioni tecnologiche.

Il nodo Taiwan

Per questo, come ha ben spiegato su Atlantico Quotidiano il generale Giuseppe Morabito, la questione Taiwan non va letta solo in chiave nazionalistica.

Taiwan è leader mondiale nella produzione di microprocessori. Gli Stati Uniti supervisionano le società taiwanesi produttrici e hanno “concordato” con Taipei che non esportino verso la Cina Popolare, per alcun motivo, componenti che potrebbero essere utilizzati nella fabbricazione di armamenti.

L’ossessione di Pechino nei confronti di Taiwan, dunque, non è dovuta solo a rivendicazioni storico-politiche, o alla posizione strategica dell’isola, che controlla i commerci marittimi che passano nello Stretto, ma anche alla centralità della produzione taiwanese di microchip avanzati, da cui passano le chance cinesi di colmare il gap tecnologico con l’Occidente. Una guerra, o una crisi tra Cina Popolare e Taiwan avrebbe un notevole impatto sull’industria mondiale dei chip.

Dunque, è opinione di Atlantico Quotidiano che la distensione andata in scena a Bali tra Cina e Occidente, qualsiasi forma essa assuma, convenga solo a Pechino, perché le consente di guadagnare tempo per affinare le capacità e potenzialità del suo strumento militare di aggressione e prepararsi al meglio a sopperire in proprio alla potenziale crisi dell’offerta di microprocessori.

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