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La guerra dei dazi: Trump potrebbe aver trovato il punto debole della Cina

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La scorsa settimana gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni durissime nei confronti di un’agenzia militare cinese, China’s Equipment Development Department, e del suo direttore, Li Shangfu, per l’acquisto di una ventina di caccia Sukhoi-25 e di missili terra-aria S-400 dalla russa Rosoboronexport, in forza della legge approvata lo scorso anno dal Congresso in risposta alle interferenze russe nelle elezioni presidenziali del 2016. Legge che prevede sanzioni per chiunque concluda “transazioni significative” con il settore della difesa e dell’intelligence russe. Le nuove sanzioni hanno suscitato stizzite e ruvide risposte sia da Mosca (gli Usa “minacciano la stabilità mondiale”, “giocano con il fuoco”) che da Pechino. L’ambasciatore Usa è stato convocato al Ministero degli affari esteri cinese, dove gli è stata notificata una “protesta solenne”, dopo che un portavoce aveva già espresso “forte indignazione” e minacciato “serie conseguenze”. Target delle sanzioni previste da questa legge però non è la Cina ma la Russia, come si è affrettato a chiarire il Dipartimento di Stato, anche se probabilmente non è un caso che stavolta abbiano colpito il cuore della (crescente) cooperazione militare sino-russa.

La Cina è invece il bersaglio diretto della seconda ondata di dazi varata dall’amministrazione Trump, che ha colto totalmente di sorpresa la leadership cinese. Nessuno si aspettava infatti questo nuovo giro di vite proprio a ridosso dell’arrivo a Washington di una delegazione di alto livello del governo cinese, per colloqui sul commercio programmati per la fine di settembre e ovviamente sfumati, e in vista delle elezioni di midterm. Dazi del 10 per cento su circa 200 miliardi di importazioni cinesi in vigore dal 24 settembre, che saliranno fino al 25 per cento dal primo gennaio 2019. Ai quali Pechino ha risposto con dazi del 5-10 per cento su circa 60 miliardi di import dagli Usa.

Qui su Atlantico non abbiamo dubbi sui benefici del libero commercio e, viceversa, sui danni nel medio-lungo periodo del protezionismo – anche per chi lo pratica, non solo per chi ne è oggetto, poiché colpisce l’efficienza del sistema produttivo e i consumatori. Bisogna capire però se per Trump l’imposizione dei dazi corrisponde a una visione dell’economia, o se si tratta piuttosto di un’arma politica per contrastare le pratiche commerciali scorrette di Pechino (da anni al centro delle preoccupazioni anche europee). Barriere all’accesso dei mercati, furto di proprietà intellettuale, contraffazione, sovraproduzione di acciaio, dumping, intervento statale. Usa e Ue si rifiutano di riconoscere quella cinese come un’economia di mercato. Mercoledì il Financial Times ha scritto che in Cina i gruppi statali si stanno “mangiando” le compagnie private in difficoltà, riferendo di una “crescente tendenza alla nazionalizzazione” (almeno dieci i grandi gruppi nazionalizzati quest’anno). Solo di recente Pechino ha deciso di ridurre i dazi sulle importazioni di una serie di prodotti, tra cui macchinari e materiali per tessile e costruzioni, ma come riportato dal Sole24Ore, “i dazi medi in Cina restano più alti di quelli applicati dai principali Paesi avanzati” (7,5 per cento, mentre nel 2017 erano del 3,4 per cento negli Usa e del 5,2 nell’Ue).

Un tema che a 17 anni dal suo ingresso nel WTO non è più procrastinabile. La realtà sta smentendo purtroppo le previsioni dei fautori (compreso chi scrive) di quel passaggio storico del 2001: la Cina non ha completato la liberalizzazione del suo mercato, anzi dagli attuali segnali sembra allontanarsene, e tanto meno avviato l’apertura del suo sistema politico. Per non parlare dei programmi e degli investimenti militari. Lungi quindi dal rappresentare la “fine della storia”, abbracciando anch’essa il liberalismo economico e politico, la Cina sta affermando un modello di capitalismo autoritario, e militarista, di successo in aperta sfida all’ordine occidentale fondato sulla democrazia liberale.

Le speranze di qualcuno a Pechino che la guerra dei dazi di Trump fosse dettata da motivi elettorali stanno svanendo velocemente. Tra l’altro, mercoledì parlando al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il presidente americano ha accusato la Cina di “interferenze” nelle elezioni di midterm: il motivo, ha spiegato, è che “non vogliono che vinca, che vinciamo, perché sono il primo presidente ad averli sfidati sul commercio”. La pressione di Trump su Pechino a quanto pare non ha ancora toccato il suo apice e il prossimo anno è probabilmente destinata ad aumentare.

Comunque la si pensi sul personaggio, difficilmente si può negare che la presidenza Trump sia la prima da decenni a confrontarsi duramente con la Russia di Putin e la prima in assoluto a mettere in difficoltà la Cina e a contrastarne l’ascesa economica e geopolitica.

Come ha segnalato mesi fa Simone Zuccarelli su Atlantico, mentre in Occidente veniva per lo più deriso nel dibattito mainstream, Mark Leonard sul Financial Times registrava che l’élite cinese si è accorta di come il presidente americano sia il primo in più di quarant’anni a colpirli efficacemente su tre fronti simultaneamente: commerciale, militare e ideologico. Alcuni a Pechino considerano Trump un “maestro di tattica” e un valido stratega, in grado di metterli in seria difficoltà. Se fino ad oggi la leadership cinese ha potuto giocare sul velluto, è stato grazie a leadership americane ed europee che hanno fideisticamente sposato un’apertura commerciale incondizionata, non corrisposta, ma con Trump sembra invece aver trovato pane per i suoi denti.

Non è detto che la sua strategia funzioni, ma non mancano i segnali, percepiti anche da autorevoli osservatori, che inducono a pensare che il presidente Usa possa aver trovato il “punto debole” di Pechino. “La Cina che vedo sta perdendo la guerra commerciale di Trump”, è il titolo di un recente editoriale sul Times dello storico Niall Ferguson, che di ritorno da una visita a Pechino riferisce di aver trovato “una élite di governo che si sta dimenando per formulare una strategia per una guerra dei dazi che pensavano si sarebbe conclusa mesi fa, una élite economica divisa circa le conseguenze dello ‘shock Trump’ sull’economia cinese e una classe media sempre più dubbiosa circa il governo del presidente Xi Jinping”.

Le opzioni sul tavolo di Pechino sono poche, osserva Ferguson. Anche per un altro studioso, Gordon G. Chang, Trump ha nel suo arsenale più armi di Xi e infatti non si è fatto impressionare dalle recenti minacce evocate dai funzionari cinesi e “ha chiamato il loro bluff”. Secondo Chang, “tutte le loro prossime mosse farebbero male più alla Cina che all’America”. Uno strumento di rappresaglia, in parte già adottato da Pechino, sono i dazi sui prodotti made in Usa. Ma le importazioni americane in Cina sono molto inferiori a quelle cinesi negli Usa, il cui deficit commerciale con Pechino ammonta a 375 miliardi di dollari. Insomma, la Cina dipende dall’America come sbocco per i suoi prodotti molto più di quanto l’America dipenda dalla Cina.

Ci sono poi 150 miliardi di dollari di prodotti americani creati e venduti direttamente in Cina, ma aggredirli, oltre a mandare un pessimo segnale anche agli altri partner commerciali, significherebbe colpire anche economia e lavoratori cinesi. Qualche funzionario di Pechino ha ipotizzato di non permettere la vendita di componenti a compagnie Usa che operano nel Paese, per esempio per la Apple. Ma la Cina ha prosperato negli ultimi decenni proprio perché ha convinto molte imprese americane ed europee a spostare in tutto o in parte la propria produzione nel Paese. E ha bisogno della tecnologia, del know how e degli investimenti esteri. Se ora, per rispondere ai dazi di Trump, dovesse colpire queste imprese spingendole a lasciare il Paese, farebbe addirittura un favore al presidente Usa, che ha fatto del ritorno delle produzioni in America uno dei suoi cavalli di battaglia elettorali. Infatti, temendo che l’ambivalenza sulle contromisure ai dazi di Trump possa spaventarle, funzionari cinesi si sono affrettati a smentire l’intenzione di colpire le compagnie americane nel Paese (un’opzione “mai stata sul tavolo”). Anche la svalutazione del renminbi è un’arma spuntata considerati i rischi politici di una impennata dell’inflazione.

Insomma, Xi Jinping sta esaurendo le sue opzioni, e questo nuovo round di dazi fa pensare che Trump sia consapevole della difficoltà in cui si trova il leader cinese. “Se la Cina intraprende azioni di rappresaglia contro i nostri agricoltori o altre industrie – si legge in una dichiarazione di lunedì della Casa Bianca – passeremo immediatamente alla fase tre, che consiste in dazi su ulteriori importazioni per un valore di circa 267 miliardi”. Se la guerra dei dazi prosegue, l’economia cinese potrebbe andare incontro a un crescente indebitamento delle proprie imprese, ad una sovracapacità dell’industria pesante e ad una sofferenza del sistema finanziario.

Sarà importante anche l’atteggiamento della nuova classe media cinese: se le critiche di oggi alla leadership, per l’escalation della guerra commerciale ma anche per l’abolizione del limite ai mandati di Xi, lasceranno il posto al risentimento per il “bullismo” americano, o se si dimostrerà invece impermeabile alla propaganda del regime.

Ferguson paragona il momento che sta vivendo la Cina di Xi Jinping alla Francia del Secondo Impero. Napoleone III era un “autocrate modernizzatore”, che puntò su libero commercio e pianificazione urbana. E come in Cina oggi, la borghesia francese era soddisfatta, nel complesso, della sua condizione. Ma “come probabilmente quella cinese oggi, fintanto che i bei tempi durarono e i suoi guadagni e diritti di proprietà non fossero minacciati dai funzionari dello Stato”. Poi, ricorda lo storico scozzese, la crescita rallentò, il contesto internazionale mutò e nel 1870 arrivò la sconfitta contro la Prussia che aprì le porte alla Terza Repubblica. “La lezione della storia – conclude – è che un regime autocratico che crea un’ampia classe media corre un certo rischio”. Xi Jinping, avendo studiato Marx, dovrebbe esserne consapevole. Quindi, secondo Ferguson, “farà di tutto per evitare una frenata significativa dell’economia e uno scontro frontale con il suo rivale strategico”, ma questo lo lascia con le armi spuntate, se la guerra commerciale con gli Usa dovesse durare anni. Un vero incubo per la leadership cinese.

Certo, conclude Ferguson, “i dazi trasgrediscono la teoria secondo cui il libero scambio è un sistema win-win, ma hanno molto più senso politico di quanto generalmente si pensi. Con il suo incredibile istinto per il punto debole della controparte, Trump ha trovato la principale vulnerabilità della leadership cinese. Quanto tale debolezza può causare reali problemi economici per la Cina è da vedere. Ma sta già provocando reali problemi politici a Xi… I futuri storici potrebbero essere impressionati dallo shock Trump tanto quanto gli economisti di oggi sono sprezzanti”.

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