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Le due metà dell’Occidente e una pace “giusta” da trattare da una posizione di forza

Zuppa di Porro: rassegna stampa del l’8 agosto 2020

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L’affermazione più ricorrente quando si parla del conflitto che insanguina l’Ucraina è che il presidente russo Putin è un nemico della civiltà occidentale. La cosa è indubbiamente vera, ma forse è opportuno soffermarci un poco su cosa significa essere un nemico, su cosa sia la società occidentale e su quale sia il suo ruolo nel mondo globale. Alla fine della Guerra Fredda due interpretazioni del mondo futuro si contendevano il campo. La prima era quella di Francis Fukuyama della “Fine della storia”: in base ad essa la civiltà occidentale si avviava a dominare il pianeta, peraltro perdendo le sue caratteristiche particolari ed adattandosi a tutte le culture che sarebbero state inglobate in un mondo senza più confini. In questa sorta di “Città di Dio” sulla terra non vi sarebbe più stata alcuna inimicizia tra i popoli, e se il leader di qualche stato si fosse opposto militarmente a questa civiltà in via di globalizzazione sarebbe stato considerato un pazzo, una sorta di laico “infedele” (cioè senza fede nel progresso) contro cui eventualmente combattere una guerra “santa”. In questa interpretazione della realtà, la storia passata non aveva alcun senso: essa rappresentava un’epoca “primitiva” rispetto al mondo globale nel quale gli uomini sarebbero stati tutti uguali.

La seconda interpretazione era quella di Samuel Huntington, basata sul “Conflitto delle civiltà”: in base ad essa quella occidentale sarebbe diventata una tra le diverse civiltà tra le quali il mondo globale doveva dividersi, certo la migliore (o la meno peggiore), ma pur sempre una Città degli uomini, il che portava a riconoscere la diversità delle altre civiltà e la legittimità del loro esistere, e portava a considerare una eventuale guerra verso potenze non occidentali come una “guerra giusta” (bellum iustum) ma non una guerra santa, nei confronti di un nemico a sua volta considerato un nemico legittimo (iustus hostis) e non come un pazzo, anche se eventualmente ritenuto colpevole di torti tanto gravi da giustificare un conflitto armato. Grande pregio di questa impostazione era anche quello di non escludere la storia passata e di cercare di definire come essa sarebbe stata rilevante nel creare i nuovi aggregati politici ed economici mondiali: in particolare Huntington parlò delle “linee di faglia”, cioè dei confini culturali, frutto del portato dei secoli precedenti, tra territori appartenenti a civiltà diverse.

Personalmente riterrei utile interpretare la guerra russo-ucraina, che come tutte le guerre moderne porta via le vite di molti civili, compresi i più inermi, in base alle concezioni proprie del “Conflitto delle civiltà”, partendo proprio dalle linee di faglia, e riconoscendo che in Ucraina è presente una di esse, quella che separa la civiltà europeo-occidentale da quella russa (o euroasiatica, come è divenuto di moda dire). In questo ci è di aiuto la storia: da circa un millennio ucraini e russi sono una sorta di “fratelli coltelli”. Peraltro, dopo le iniziali migrazioni delle popolazioni vichinghe (i Rus’) del secolo X che portarono alla formazione di un principato con capitale Kiev, a partire dal XIII secolo fu Mosca a prendere il sopravvento portando alla creazione della “Grande Russia”, in contrapposizione al territorio controllato da Kiev che per un certo periodo venne definito “Piccola Russia” per poi assumere il nome di Ucraina.

In seguito questo conflitto tra le due comunità politiche, rafforzato dalla separazione religiosa dopo l’adesione di Kiev alla chiesa cattolica (unione di Brest del XVI secolo) è stato sempre più sbilanciato a vantaggio della civiltà russa e della potenza di Mosca, prima in epoca zarista e poi in epoca sovietica, e spesso l’Ucraina si è trovata ad essere il terreno di scontro tra Est ed Ovest: drammaticamente durante la Seconda Guerra Mondiale quelle popolazioni di trovarono a dover scegliere se combattere a favore di Hitler o a favore di Stalin. Con il crollo dell’Unione Sovietica, nella Repubblica ucraina (i cui confini erano stati disegnati a tavolino dai gerarchi dell’epoca comunista) si sono trovati a vivere anche alcuni gruppi di popolazione di lingua e cultura russa, concentrati nella parte orientale del Paese, al di là se così si può dire della linea di faglia tra le due civiltà: qualunque decisione diretta a contrastare il nemico anti-occidentale dovrebbe tenere conto anche del loro diritto alla “autodeterminazione”.

Naturalmente le diverse civiltà in competizione non sono tutte sullo stesso piano neanche dal punto di vista dei rapporti di forza: usando un’espressione sempre di Huntington si potrebbe tuttora affermare che il mondo attuale si basa su un equilibrio uni-multipolare, dove accanto a grandi potenze regionali (la Cina, i grandi Paesi europei, la stessa Russia ecc.) esiste un’unica potenza globale, gli Stati Uniti d’America, capace di intervenire in tutti gli scenari di guerra mondiali, e di competere (e spesso di primeggiare) in tutti i settori dell’economia, dell’innovazione e della cultura. Il giornalista e politologo tedesco Josef Joffe, nel suo libro “The Myth od America’s decline” (Il mito del declino dell’America), dopo avere ripreso questa espressione di Huntington, ed avere illustrato i motivi del probabile perdurare del primato americano, notava inoltre con visione “preveggente” (il libro è del 2014, cioè dell’epoca della seconda presidenza Obama) che gli Stati Uniti stavano diventando una potenza “reticente” ad intervenire militarmente all’estero, dopo gli insuccessi delle guerre mediorientali dei decenni scorsi (Afghanistan, Iraq, Libia).

La tendenza si è confermata durante la presidenza di Trump e perdura sino ad ora anche con il presidente Biden. Da pochi anni però si sta delineando a ben guardare un fatto nuovo nell’ordine delle civiltà mondiali, del quale a parere di chi scrive la Brexit è stata il segnale più evidente: la crescente spaccatura della civiltà occidentale (dal punto di vista culturale, economico e anche strategico militare) in due parti, da un lato quella anglosassone, che agli Stati Uniti unisce la Gran Bretagna e le sue grandi ex colonie sparse per il pianeta (Canada, Australia, Nuova Zelanda), e dall’altro quella europeo continentale, più o meno corrispondente con l’ambito dell’Unione europea, e a sua volta divisa tra Paesi nordici, Paesi mediterranei e Paesi orientali, alcuni dei quali limitrofi all’Ucraina. Le due metà della civiltà occidentale (se questo processo di separazione andrà a compimento) saranno certo sempre alleate, ma con punti di vista e interessi diversi.

Qualcosa di simile del resto è già in parte accaduto: da decenni l’impostazione della politica estera dei maggiori Paesi europei continentali, quali la Germania e la Francia, e al loro seguito quella dell’Italia è stata basata su una sorta di ambiguità: da un lato la fede nella “fine della storia” che avrebbe portato ad una espansione inarrestabile anche verso Est della civiltà occidentale e in particolare dell’Unione europea, e nell’ambito di questa alla creazione di una potenza economica pari a quella americana, e dall’altro la certezza di potere contare, nel mondo reale, sull’appoggio delle armi americane nell’ambito della Nato. Quest’ottica è stata alla base ad esempio sia della guerra nell’ex Jugoslavia che dei bombardamenti sulla Libia, e in base ad essa, soprattutto grazie all’azione decisiva della cancelliere tedesca Angela Merkel, sono stati intrecciati rapporti economici sempre più stretti con la Russia a livello di forniture di energia, ed è stata avviata la possibilità di una collaborazione commerciale stabile con la Cina attraverso la nuova “Via della seta”, mentre ci si è disimpegnati in maniera crescente dai legami con la Nato, definita “in stato di morte cerebrale” solo un paio d’anni fa dal presidente francese Macron. Questo come si ricorderà aveva provocato numerose tensioni diplomatiche con l’amministrazione Trump.

Con lo scoppio della crisi ucraina i Paesi europei continentali hanno drammaticamente preso atto del fatto che gli Stati Uniti, unitamente agli altri Paesi anglosassoni, sono diventati (secondo l’espressione di Joffe) una potenza reticente ad intervenire militarmente nei vari scenari mondiali, e del fatto che siccome il mondo nel frattempo non è diventato perfetto e i conflitti tra i popoli (ora tra le civiltà direbbe Huntington) purtroppo esisteranno, come la zizzania della similitudine evangelica, sino alla fine dei tempi, la precedente politica andava cambiata. Così da un lato tutti hanno aumentato le spese militari e hanno cercato di rafforzare il proprio impegno nella Nato, e dall’altro hanno iniziato (cosa molto difficile da fare in pratica) a cercare di rendersi meno dipendenti dalle forniture russe di materie prime, mentre la stessa prospettiva della Via della Seta che dovrebbe passare per la Russia e per l’Ucraina è stata accantonata: paradossalmente i Paesi europei (Germania in testa ed Italia al seguito) sollecitati dall’amministrazione Biden hanno adottato in tutta fretta le misure che avevano rifiutato di adottare di fronte agli inviti di Trump.

Rimane la tragica realtà della guerra con le sue vittime innocenti, e ad essa si aggiunge (e non sarebbe giusto non parlarne) la crescente situazione di povertà e di declino economico e sociale di molti Paesi europei (tra cui il nostro) che le restrizioni energetiche, unendosi agli effetti già devastanti prodotti prima dalla crisi economica e poi dalla pandemia (e dai modi con cui entrambe sono state gestite), andrebbero ulteriormente ad aggravare, forse sino ad un punto di non ritorno. L’amministrazione americana durante la presidenza Trump era riuscita a concludere alcuni importanti accordi di pace anche tra nemici di lunga data: si pensi agli Accordi di Abramo tra Israele e alcuni Paesi arabi, o alla distensione con la Corea del Nord, uno stato guidato da un dittatore ben più “pazzo” di quello russo, e situato in un’area caratterizzata dalla fondamentale presenza cinese. Se il Russiagate non avesse di fatto bloccato ogni iniziativa del presidente Trump in tal senso, forse si sarebbe giunti ad un accordo da parte americana anche con la Russia? Ma gli europei lo avrebbero accettato? E gli ucraini? In ogni caso l’amministrazione Biden ha scelto un’altra strada: quella di non trattare.

Oggi nelle cancellerie occidentali (sia anglosassoni che europee continentali) prevalgono toni da “guerra santa”, se ci si attiene strettamente ai quali ben difficilmente si potrà giungere ad una iniziativa di pace: c’è da augurarsi per il bene di tutti che prevalga invece un’interpretazione della realtà politica simile a quella di Huntington, grazie alla quale si possa vedere in Putin un nemico da affrontare magari anche tramite gli aiuti all’Ucraina, ma con il quale quanto prima si deve cercare (lo richiede la necessità di porre fine alle sofferenze della guerra per gli ucraini e a quelle economiche e sociali per i cittadini europei) di arrivare ad una “giusta pace”, che riconosca per quanto possibile le posizioni delle due civiltà in conflitto. Una pace contrattata da una posizione di forza (militare ed economica, che nel caso in esame solo l’impegno americano nelle trattative può garantire) che non richieda l’intervento armato e che in tal modo riesca, anche concedendogli quanto è doveroso concedergli, a fermare l’aggressività del nemico e a trasformarlo in una potenza non ostile, è sempre un capolavoro politico non facile da realizzare, ma è proprio questo ciò che i governanti occidentali (americani ed europei, per quanto di loro competenza), nella situazione drammatica di oggi sono chiamati a compiere.

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