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L’impotenza militare dell’Europa, che continua a cullarsi nel suo pacifismo unilaterale

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Il pacifismo unilaterale che da decenni domina il dibattito pubblico italiano ed europeo, con le sue infinite varianti, reagisce alle crisi internazionali proponendo un percorso condiviso in grado di annullare il pericolo. Al centro del suo discorso si colloca la convinzione che le cause dei conflitti armati siano sempre individuabili con estrema precisione. A generare le guerre sarebbero in primo luogo la povertà e l’ignoranza, e alle due piaghe suddette vanno ricondotti anche il fanatismo (religioso e non), il nazionalismo (nelle sue tante forme), la volontà di potenza teorizzata da Nietzsche.

Il problema è che quel sempre prima abbinato a povertà e ignoranza risulta assai meno convincente di quanto appaia a prima vista. Non è detto che una società ricca e ad alto tasso di scolarizzazione sia, ipso facto, anche una società pacifica. E pure un altro termine chiave molto usato, “condivisione”, risulta alquanto problematico. Per essere efficace, la condivisione deve diventare realmente universale, senza residui di sorta. Se è parziale, come sempre accade, non risolve affatto il problema.

Il caos afghano, oltre a evidenziare la debolezza di Joe Biden (che, peraltro, molti avevano già intuito), dimostra anche l’irrilevanza dell’Unione europea dal punto di vista militare. I fondatori non si sono mai posti il problema di una struttura – non solo difensiva, ma anche offensiva – comune. E, quando lo hanno fatto, le suddette pulsioni pacifiste li hanno indotti a trascurare la dimensione della potenza militare.

Si tratta di un torpore che data almeno dalla fine del secondo conflitto mondiale, quando gli stremati europei si affidarono in toto agli Stati Uniti per tutto quanto concerne i temi della difesa e della sicurezza. Salvo criticarli quando ricorrevano alla loro potenza bellica per intervenire in varie parti del globo. Ma li si attaccava anche per motivi opposti, e cioè per il rifiuto di impiegare truppe sul terreno al fine di risolvere – o almeno tentare di farlo – conflitti sanguinosi che, spesso, riguardavano più noi che loro.

Ogni volta che in Europa (e particolarmente in Italia) si parla di aumentare il budget militare per rendere più operative ed efficienti le forze armate, si levano subito grida di dolore. I soldi – questo è il ritornello comune – vanno spesi per ospedali, assistenza, istruzione etc. Affermazione nobilissima che, però, trascura una questione di fondamentale importanza.

Il nostro livello di vita è stato garantito negli ultimi decenni dall’assenza di serie minacce rivolte alla sicurezza nazionale. Se il quadro cambia, come sta in effetti avvenendo, occorre mutare anche la forma mentis facendo notare che la possibilità di un’aggressione è ormai uscita dalla sfera della pura fantasia. Non mi pare che tale consapevolezza ci sia e, se esiste, non è certo maggioritaria. Continuiamo a cullarci nel sogno pacifista mentre altri hanno propositi di tutt’altro segno. Preoccupante, a dir poco, e si può solo sperare che il risveglio non sia troppo traumatico.

Sarebbe necessario, per esempio, ripensare le funzioni della Nato, che ora include Paesi – come la Turchia – sempre più spesso impegnati sul fronte anti-occidentale. E occorrerebbe anche una maggiore autonomia militare dagli Usa, dove stanno prevalendo spinte isolazionistiche (com’è spesso accaduto nella loro storia). Si comprende ora in tutta la sua portata l’errore di aver creato un’unione solo economica e monetaria, senza punto preoccuparsi della coesione politica e soprattutto, considerate le circostanze, di una comune politica di difesa.

Di qui le considerazioni pessimistiche di un realista come Henry Kissinger sull’attuale Unione europea, nella quale il processo di integrazione è stato gestito come un problema burocratico di aumento di competenze dei vari organismi amministrativi. Il bluff oggi è evidente. Non bastano certo Francia e Regno Unito (quest’ultimo, del resto, uscito dall’Unione) a rassicurarci dal momento che, con uno scudo americano assai meno sicuro di un tempo, la Ue conta poco o nulla dal punto di vista militare.

Dunque l’atlantismo va sempre difeso. Ma non si può trascurare il fatto che oggi alla Casa Bianca abbiamo un presidente non solo debole e incerto, ma pure contraddittorio. Non era stato proprio Biden, infatti, ad assicurare gli alleati che avrebbe posto i principi della Carta Atlantica a fondamento della sua politica estera? In Afghanistan si è smentito clamorosamente e a volte, ascoltando i suoi discorsi confusi, si ha l’impressione che nemmeno lo capisca, pur avendo fama di esperto di politica internazionale.

Stesso discorso vale per la Nato. Gli Usa hanno il diritto di dirigerla perché, senza il loro apporto finanziario, l’Alleanza crollerebbe subito. Tuttavia è necessaria da parte americana una strategia chiara che determini i suoi obiettivi. Gli europei non possono fare la voce grossa poiché il loro contributo economico è assai meno rilevante. Speriamo non giunga il momento in cui gli Stati Uniti giudicheranno inutile lo “scudo” a protezione degli alleati, dal momento che lo scenario globale non offre alternative plausibili.

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