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L’Occidente sta regalando alla Cina la corda per farsi impiccare: il WSJ sulla disfatta di Anchorage

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Torniamo a parlarne oggi, su Atlantico Quotidiano, con lo splendido articolo, davvero da conservare, di Rob Piccoli: come la cancel culture, il cosiddetto wokism – forme estremizzate dell’odio di sé dell’Occidente, purtroppo ideologia quasi ufficiale oggi in America, sdoganata dal Partito democratico che è al potere sia alla Casa Bianca che al Congresso – stiano rendendo gli Stati Uniti più deboli di fronte ai loro nemici esterni.

Non siamo stati gli unici ad interpretare con questa chiave di lettura lo scontro verbale a favore di telecamere che ha avuto luogo la scorsa settimana ad Anchorage, Alaska, tra le delegazioni cinese e americana. I rappresentanti di Pechino hanno lanciato un duro atto d’accusa nei confronti degli Stati Uniti, utilizzando gli stessi argomenti del progressismo Usa per cercare di spodestarli dal loro piedistallo, metterne in discussione l’autorità morale e la credibilità come faro di democrazia e diritti umani.

Siamo infatti in autorevolissima compagnia (almeno oltreoceano): ieri il Wall Street Journal ha ospitato un commento del suo ex direttore, Gerard Baker, dal titolo icastico: “Le élites culturali dell’Occidente stanno regalando la corda di Lenin”. Il riferimento è ad una celebre profezia attribuita a Lenin: “I capitalisti ci venderanno la corda con cui impiccarli”. E stava a ricordare la convinzione, fino all’ultimo incrollabile, dei comunisti sovietici che le contraddizioni interne al capitalismo avrebbero inevitabilmente portato al collasso (dato sempre per imminente) dell’Occidente. Com’è noto, nell’attesa sono collassati l’Unione Sovietica e l’intero blocco comunista.

Oggi però la corda rischiamo di venderla, anzi di regalarla, non ai comunisti sovietici, ma a Xi Jinping, ai comunisti cinesi. E non si tratta delle contraddizioni interne di un sistema economico, quello capitalistico, ma di una debolezza ideologica e culturale auto-inflitta dalle nostre élites. Scrive Baker:

“È stato evidente dal momento in cui le due parti si sono sedute che una leadership cinese incoraggiata è consapevole che la più grande arma ideologica che ora detiene nella sua lotta sempre più esistenziale con l’America è il gioioso entusiasmo per l’autodistruzione che caratterizza gran parte dell’élite negli Stati Uniti”.

Quando il numero uno della politica estera del Partito Comunista Cinese, Yang Jiechi, come abbiamo riportato nel nostro articolo, si è permesso di fare la ramanzina al segretario di Stato Usa Anthony Blinken circa la “scarsa fiducia” degli americani nella democrazia Usa, i “profondi problemi di diritti umani”, il trattamento discriminatorio delle minoranze e l’innata ingiustizia del sistema, “tutto ciò che ha detto – osserva Baker – avrebbe potuto essere copiato direttamente dalle pagine della piattaforma del Partito democratico per l’elezione presidenziale, estratto da articoli di giornale vincitori di Premi Pulitzer, o annotato negli appunti di uno studente alle lezioni tenute quotidianamente nelle migliori università americane”.

Immagini estremamente vivide quelle ritratte da Baker, che giunge alle nostre stesse conclusioni: “Come può una nazione prevalere in una battaglia ideologica quando i suoi leader credono che i suoi valori siano malvagi?”

Come abbiamo scritto, la fiducia in se stessi, la consapevolezza dei traguardi della propria civiltà, è una risorsa strategica nelle relazioni internazionali.

Un editoriale del Global Times, testata del regime di Pechino, secondo cui addirittura “i colloqui in Alaska saranno ricordati come una pietra miliare nella storia”, accusa direttamente gli Usa di suprematismo bianco:

“Washington ha sempre distorto i fatti. Si è vantata dei suoi alleati. Mentre mina le regole, promuove anche spudoratamente un cosiddetto ordine internazionale basato su regole. Tutto ciò di cui parla Washington è incentrato sugli Stati Uniti e sulla supremazia bianca”.

Né si può affermare che quanto accaduto ad Anchorage sia stato un caso. Il genere di risposta dato da Blinken a Yang, quando il diplomatico cinese ha accusato gli Stati Uniti di essere un Paese razzista che viola i diritti umani (“però ammettiamo i nostri errori e ci stiamo migliorando”), lo abbiamo riascoltato tale e quale il giorno dopo, a New York, nella sede dell’Onu, dall’ambasciatore Usa alle Nazioni Unite, Linda Thomas-Greenfield, durante un altro duro scambio con la controparte cinese, il vice ambasciatore Dai Bing.

La Thomas-Greenfield, una donna di colore, ha preteso di accusare la Cina di razzismo ricordando il razzismo che ha dovuto affrontare durante tutta la sua vita negli Stati Uniti. “Conosco la brutta faccia del razzismo. Ho vissuto il razzismo, ho sperimentato il razzismo e sono sopravvissuta al razzismo”, ha detto. “Il razzismo è il problema del razzista. Ed è il problema della società che produce il razzista. E nel mondo di oggi è di ogni società”, ha continuato. “Il razzismo era e continua ad essere una sfida quotidiana ovunque ci troviamo. E per milioni di persone è più di una sfida. È mortale”.

Dopo una premessa che suona come un atto d’accusa al suo stesso Paese e a tutti i Paesi, Thomas-Greenfield ha puntato il dito contro la Cina per i crimini contro gli uiguri e le altre minoranze etniche, sentendosi ovviamente rispondere dall’ambasciatore cinese – se il problema è di “tutte le società” e lei stessa l’ha sperimentato di persona – di guardare in casa propria invece di dare lezioni. Nonostante “abbia in via eccezionale ammesso l’ignobile record di diritti umani del suo Paese, questo non dà al suo Paese il diritto di salire sul piedistallo e dire agli altri Paesi cosa fare”.

“Se agli Stati Uniti – ha infierito Dai – importasse veramente dei diritti umani, dovrebbero affrontare i problemi profondi della discriminazione razziale, dell’ingiustizia sociale e della brutalità della polizia, sul proprio territorio”. Dal punto di vista dialettico risposta ineccepibile e, come vedete, tornano tutti i temi del progressismo woke Usa, entrati ormai nell’agenda e nel linguaggio dei Democratici: brutalità della polizia, razzismo sistemico, ingiustizia sociale.

Se la riposta dell’ambasciatore cinese è stata in linea con quella di Yang Jiechi ad Anchorage, anche la contro-replica della Thomas-Greenfield ha seguito il copione di Blinken, il segretario di Stato: “Abbiamo dei difetti. Difetti profondi e gravi. Ma ne parliamo. Lavoriamo per affrontarli”.

Ma è così che gli stessi rappresentanti degli Stati Uniti postulano l’equivalenza morale tra la democrazia americana e i regimi autoritari (o per lo meno offrono il fianco ai loro avversari).

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