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Movimento 5 Stelle: l’onda lunga del giustizialismo, e dell’antiberlusconismo, che ha travolto anche la sinistra

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Lo shock di essere scesi sotto la soglia non solo psicologica del 20 per cento è stato forte. Una batosta che farebbe barcollare chiunque e che solleva molte domande. Il Pd ha un futuro, oppure subirà la stessa sorte del Popolo della Libertà? Un partito nato nella stagione del bipolarismo, con una vocazione maggioritaria quasi da bipartitismo, può sopravvivere in un sistema tripolare, se non multipolare? Oppure, andiamo verso un nuovo bipolarismo che tornerà a guardare al centro?

Risposte non scontate, che presumono un altro interrogativo. Il Movimento 5 Stelle è la nuova sinistra che ha fagocitato la vecchia, ovvero il Pd e le “costole” che periodicamente con scarsa fortuna si staccano da esso? E dunque, il Pd è destinato a dividersi, tra chi in queste ore sarebbe favorevole ad un accordo con il M5S e chi, opponendosi a tale prospettiva, è destinato a guardare al centrodestra? Hanno suggerito tale separazione “strategica” Franco Debenedetti e Nicola Rossi nei giorni scorsi sul Foglio.

È possibile che l’affermazione del M5S e la caduta al di sotto del 20 per cento obblighi il Pd a compiere una scelta definitiva che dalla sua nascita ha sempre rinviato: cosa vuol essere “da grande”, un partito di centro-sinistra, moderato, liberale, o il partito della “vera sinistra”? Matteo Renzi sembrava volerla compiere questa scelta, all’inizio della sua esperienza alla guida del partito e del governo, ma persino lui in nome dell'”unità” è tornato sui suoi passi, restando a metà del guado e iniziando così la sua serie di errori strategici. Ora questa scelta potrebbe essere obbligata, ma in circostanze così avverse che potrebbe segnare la fine del Pd.

Concentriamoci però sul carro di uno dei due vincitori, che sembra più attraente ad alcuni pezzi di establishment e maître à penser della sinistra, e persino alla Chiesa cattolica. Dal gruppo Espresso-Repubblica al Fatto Quotidiano, da Confindustria ad ambienti europei, pare, si spinge il Pd a consentire la nascita di un governo Cinque Stelle, se non addirittura a farne parte.

“La sinistra ha rinunciato a essere sinistra”, si rimprovera al Pd. Uno stimato politilogo come Gianfranco Pasquino è arrivato a stigmatizzare il no di Matteo Renzi a tale prospettiva sostenendo che “rifiutarsi di fare un governo nel Parlamento di una democrazia parlamentare non è solo ignoranza, è protervia”, addirittura “eversione”. Una evidente assurdità, pur di attaccare il segretario uscente del Pd.

Per costoro il M5S è in fondo una forza politica di sinistra che può essere “normalizzata” e che a quanto pare, se coalizzata con Pd e LeU, spaventa meno di un Salvini.

Qual è, dunque, la vera natura del Movimento 5 Stelle? È un movimento di sinistra che costringe il Pd, o quello che ne resta, ad adeguarsi o a trovare altrove, al centro, la sua ragion d’essere? È stato detto che è un movimento post-ideologico. In effetti è privo di una cultura politica coerente che ricordi in qualche modo le grandi famiglie ideologiche del ‘900. Anche nel linguaggio i suoi leader ed esponenti sfuggono alle categorie di destra e sinistra, o meglio le interpretano entrambe. Ma la sua capacità di attrarre elettori sia da destra che da sinistra, persino moderati, è essenzialmente dovuta al suo deciso tratto di protesta contro i partiti tradizionali, ormai screditati. È il catalizzatore di un disgusto trasversalissimo dell’opinione pubblica per la politica del “Palazzo”. Per molti dei suoi elettori è questo l’elemento prevalente, tutto il resto – contenuti e proposte – restano sullo sfondo. Laddove il Movimento dovesse assumere responsabilità di governo (e l’esperienza in alcune grandi città come Roma e Torino lo sta già dimostrando) difficilmente riuscirebbe a conservare la sua trasversalità. Destra e sinistra sono ormai concetti sfumati, da ridefinire, ma non del tutto superati.

Il M5S di Di Maio è come il PCI di Berlinguer, ha sostenuto in un’intervista il sociologo Domenico De Masi. Hanno “la stessa base sociale”: periferie, operai, disoccupati, “quello che si chiamava proletariato”. Per molti un paragone sacrilego. In effetti, anche partiti di destra hanno saputo conquistare in questi anni il voto di periferie, operai e disoccupati. Il paragone appare più calzante se invece pensiamo alla “questione morale”, a quella “diversità”, quasi antropologica, che Berlinguer attribuiva al PCI rispetto agli altri partiti (fil rouge notato anche da Debenedetti e Rossi nel loro intervento). Un partito degli “onesti”, e un partito comunista che al contrario del PSI di Craxi (divenuto una socialdemocrazia europea) era ancora lontano dall’afferrare le dinamiche e le regole di funzionamento dell’economia di mercato, dunque unfit a governare un Paese dell’allora G7. Proprio come il M5S oggi, a quarant’anni di distanza… E prendetela come poco più che una suggestione, ma l’ostilità reciproca tra Cinque Stelle e Pd renziano ricorda quella tra PCI e PSI dell’epoca…

Basta mandare al potere gli “onesti” perché la corruzione scompaia e la macchina dello Stato funzioni, è da sempre la presunzione anche del M5S, la grande illusione che ne spiega in gran parte il successo. Nelle parole d’ordine del Movimento, nelle posizioni espresse e nei progetti di legge presentati e sostenuti dalla maggior parte dei suoi eletti nella scorsa legislatura, e in molte delle sue proposte e slogan anche in questa campagna elettorale, sono ben visibili i retaggi e gli istinti deteriori della sinistra post-berlingueriana.

A cominciare, naturalmente, dal giustizialismo e dall’antiberlusconismo. L’avviso di garanzia come marchio indelebile e strumento di lotta politica. A partire dal 1992 gli eredi di Berlinguer e la sinistra democristiana, gli unici a non essere spazzati via da Tangentopoli (non certo per meriti propri), e le loro corazzate giornalistiche non hanno esitato ad alimentare e a cavalcare la tigre mediatico-giudiziaria, prima per liberarsi dei partiti della Prima Repubblica, poi per abbattere Berlusconi. Alla fine ci sono riusciti, ma a che prezzo? Al prezzo di spalancare le porte alla delegittimazione dell’intera classe politica, di divenire succubi e vittime essi stessi del “partito della magistratura” e delle sue gazzette. E loro malgrado ora il testimone è passato al M5S (secondo la regola per cui c’è sempre qualcuno “più puro che ti epura”…). Il caso Consip che ha colpito Renzi è solo una piccola parte di quello che hanno dovuto subire Craxi, l’ex Cavaliere e i suoi uomini (per fare un nome: Bertolaso).

Non solo la deriva giustizialista. Il M5S è il prodotto non intenzionale, ma più coerente, dell’opposizione populista e demagogica del centrosinistra ai governi Berlusconi, anche sui temi socio-economici.
Berlusconi prometteva di tagliare le tasse, far dimagrire lo Stato e riformare pensioni e mercato del lavoro (con risultati trascurabili)? Le tasse sono bellissime! Macelleria sociale! A rischio i servizi pubblici essenziali…
Berlusconi proponeva di riformare la Costituzione? Golpe! Inciucio! La Costituzione “più bella del mondo”, guai a toccarla, semmai bisogna attuarla alla lettera.
Riforma della giustizia, separazione delle carriere, immunità parlamentare? Attentato all’indipendenza della magistratura, impunità! E così via…

Il popolo di Grillo ha fatto proprie, assimilato, le pulsioni e le argomentazioni di questa “sinistra di lotta”. Solo che anziché applicarle solo a Berlusconi, le ha portate alle estreme conseguenze, applicandole anche alla “sinistra di governo”, non potendo far altro che constatarne l’incoerenza e l’inaffidabilità rispetto alle sue stesse parole d’ordine.

Guarda caso il M5S nasce e prende piede subito dopo l’ennesima vittoria della coalizione guidata da Berlusconi nel 2008, nella convinzione che l’Ulivo-Pd non rappresentasse ormai una credibile alternativa, che fosse a sua volta corrotto e colluso (il “Pd meno L”), e con l’obiettivo di sostituirsi ad esso. Beppe Grillo provò persino a candidarsi alle primarie del Pd. Oggi il partito avversario più odiato dagli elettori Cinque Stelle, che provengano da destra o da sinistra, è proprio il Pd: la rabbia di chi si sente tradito.

Da una prima analisi dei flussi dell’Istituto Cattaneo emerge che una quota tra il 15 e il 20 per cento degli elettori Pd nel 2013 lo scorso 4 marzo ha scelto il M5S. Trend simile si era registrato anche alle elezioni del 2013 rispetto al 2008. Il M5S ha fatto il pieno in settori dell’elettorato tradizionalmente di sinistra. Si calcola che abbia raccolto il 36,1 per cento dei consensi tra impiegati e insegnanti. Se si considera l’intera pubblica amministrazione, secondo dati Ipsos, gli elettori pentastellati sul totale dei dipendenti pubblici andati alle urne il 4 marzo sono il 41,6 per cento. Il Pd si ferma al 17, LeU arriva a stento al 2. A nulla sono valse le successive infornate di precari assunti nella scuola (100 mila), né l’aumento salariale medio di 85 euro previsto dai nuovi contratti statali siglati in extremis a pochi giorni dal voto. Se il boom dei Cinque Stelle tra i disoccupati si spiega forse con la proposta del reddito di cittadinanza, quello tra i dipendenti pubblici, sanità e istruzione su tutti, con la contrarietà ai “tagli” alla spesa (sebbene tagli veri non si siano mai visti).

I governi Letta-Renzi-Gentiloni hanno fatto obiettivamente il massimo di quanto consentito dai margini di bilancio per accontentare la propria base elettorale, ma non è bastato. Ormai le aspettative di intervento e protezione statale, alimentate in passato proprio dal centrosinistra in polemica con i governi di centrodestra, sono troppo elevate. Dopo anni a denunciare come macelleria sociale le politiche tutt’altro che thatcheriane dei governi Berlusconi, persino decine di migliaia di assunzioni, aumenti salariali e una stretta sui contratti atipici appaiono deludenti.

La principale proposta del M5S, il reddito di cittadinanza, è la quintessenza dell’assistenzialismo, lo sbocco più coerente per chi crede che lo Stato debba garantire il costituzionale “diritto al lavoro” e, quando non ci riesce, il reddito, reperendo le risorse tassando i “ricchi” (o presunti tali…) a colpi di patrimoniali più o meno nascoste. Chi ha spacciato tali “droghe pesanti” nel dibattito pubblico, se non la sinistra?

La condanna di una flessibilità mai davvero sperimentata (il mercato del lavoro è rimasto “duale”, spaccato tra iper-garantiti e outsider) come causa del precariato (prodotto invece dalla stagnazione) ha perpetuato l’idea del diritto al “posto fisso”. Persino il tentativo di introdurre minimi criteri di merito e di efficienza nella PA, scuola in primis (per esempio, mandare gli insegnanti dove c’è carenza e prevedere premi per quelli che si impegnano di più), è stato respinto come una politica di destra, anzi peggio: berlusconiana e neoliberista. Un malumore che è stato raccolto e interpretato dai Cinque Stelle: superamento della “Buona scuola”, piano assunzioni in base al “fabbisogno nazionale”, incremento della spesa pubblica per l’istruzione, abolizione del precariato.

Un altro esempio: i referendum abrogativi del giugno del 2011. Praticamente la piattaforma programmatica del M5S: tutto pubblico. Per assestare un’ulteriore spallata al governo Berlusconi, il Pd (Renzi compreso) sostiene il Sì. E quindi no alla messa a gara dei servizi pubblici locali limitando il ricorso alle municipalizzate. No alla remunerazione degli investimenti privati nei servizi idrici. No all’energia nucleare. No al legittimo impedimento.

In particolare, la campagna per “l’acqua pubblica” si ritorce contro il Pd nel 2016, quando tutta la retorica di cinque anni prima viene travolta. In effetti, l’abrogazione delle norme chiesta dai primi due quesiti non dava vita ad una gestione interamente pubblica dei servizi idrici. La ripubblicizzazione integrale era invece obiettivo della proposta di legge M5S-Sel a prima firma Federica Daga. Nell’emendare la proposta lasciando agli enti locali la possibilità dell’ingresso dei privati, il Pd non tradiva l’esito del referendum, ma il suo “spirito”, ovvero la retorica e le aspettative che aveva contribuito ad alimentare con la campagna referendaria: che la gestione del servizio idrico dovesse essere “solo” pubblica.

Ma torniamo ad oggi. Non è giusto, sostengono alcuni, continuare a chiedere a un solo partito della scena politica italiana – ovvero il Pd – di “fare l’adulto”, di essere responsabile, offrendo i propri voti per la nascita di un governo Di Maio. Il Pd responsabile? Siamo al capovolgimento della storia degli ultimi vent’anni. Al contrario, il Pd e i partiti del centro-sinistra prima di lui sono stati i più irresponsabili sulla scena politica italiana.

Il modo di opporsi ai governi Berlusconi da parte di quei partiti e degli opinion leader della sinistra, come se non ci fosse un domani, ha letteralmente plasmato la cosiddetta “anti-politica” e, peggio, le aspettative di milioni e milioni di elettori in senso giustizialista, statalista e massimalista. Oggi lo chiamano “populismo”, ma è esattamente ciò che hanno praticato per due decenni contro Berlusconi e ancor prima contro i partiti di governo della Prima Repubblica. Perfettamente consapevoli, allora, che si trattava spesso di forzature, strumentalizzazioni, demagogia, per delegittimare e abbattere gli avversari politici. Peccato che milioni di elettori di sinistra (e anche di destra) abbiano finito per crederci.

Gli elettori nella fascia di età compresa tra i 25 e i 40, che più delle altre ha votato Cinque Stelle, sono quelli non solo più colpiti dalla crisi, ma anche cresciuti a “pane e antiberlusconismo”, guardando le trasmissioni di Santoro e Floris, leggendo Repubblical’Espresso, l’Unità e il Fatto di Padellaro.

La sinistra ha continuato per anni, dall’opposizione, a far credere alla propria gente che l’Italia potesse andare avanti senza toccare il settore pubblico, senza rendere più flessibile il mercato del lavoro, che bastasse mandare al potere gli “onesti” al posto dei “corrotti” (sempre gli altri) e redistribuire ricchezza senza crearne di nuova. Alla fine è rimasta vittima del suo stesso populismo, della distanza sempre maggiore tra le aspettative spacciate dal pulpito dell’opposizione ai governi Berlusconi e la realtà delle sue politiche quando si è ritrovata al governo.

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