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Scampato pericolo per la libertà d’espressione, i neo-oscurantisti del Ddl Zan non passano al Senato

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Il Ddl Zan non aggiungeva alcun diritto, e nessun diritto è negato dalla sua mancata approvazione, ma al contrario portava un attacco, questo sì oscurantista, alla libertà d’espressione

Un’ondata di bile ieri sera ha attraversato aule parlamentari, segreterie politiche, redazioni, studi televisivi, smartphone di influencer e, ovviamente, la bolla social. Lutto misto a rabbia e isteria di gruppo, come non si vedeva dalla vittoria di Trump o Brexit, da cui sono scaturite parole cariche di risentimento, di odio (sì, proprio da coloro che pontificano in nome della lotta all’hate speech) contro tutti coloro ritenuti, a torto o a ragione, responsabili dell’affossamento del Ddl Zan.

Nel clima plumbeo di una Italia in cui è necessario un lasciapassare sanitario per lavorare e portare a casa lo stipendio, in cui le libertà individuali da quasi due anni arretrano, vengono ritenute sacrificabili, e sospese per decreto, nell’indifferenza quasi generale e con il plauso di gran parte della classe politica e intellettuale, e dei media, lo stop al Ddl Zan rappresenta un sussulto, un colpo ben assestato ma quasi da guerriglia ai danni di un esercito occupante pervasivo e dalla schiacciante superiorità.

Non è un caso che oggi a trasudare rabbia e a gridare alla discriminazione siano quasi tutti coloro che applaudono al Green Pass e ai lockdown, che invocano ogni tipo di discriminazione nei confronti di coloro i quali semplicemente rivendicano la libertà di scelta sul proprio corpo, sebbene per motivi diversi dagli Lbgt.

Dal punto di vista parlamentare si è trattato di un suicidio annunciato, lo sbocco inevitabile della tracotanza di chi voleva far passare a tutti i costi, senza compromessi, un testo su cui – s’era già visto prima dell’estate con il voto palese – non aveva i numeri.

Avrebbero potuto far approvare facilmente una legge condivisa da uno spettro molto ampio di forze parlamentari, il che avrebbe avuto un forte significato politico. Quale messaggio più potente di un Parlamento che quasi all’unanimità approva una legge contro l’omotransfobia? Sarebbe bastato eliminare le norme più assurde contenute nel disegno di legge (artt. 1, 4, 7) per ottenere questo risultato. Hanno invece scelto il fanatismo che imputano ai loro avversari e sono rimasti con un pugno di mosche.

Ma se il promotore della legge e i pasdaran dell’ideologia gender possono essere rimasti vittime della loro stessa intransigenza e immaturità politica, c’è senz’altro del calcolo politico nella decisione del segretario del Pd Enrico Letta di far schiantare il Ddl Zan contro il muro – o per lo meno mettere nel conto che così finisse. Una ingenuità? Da Letta non è verosimile. C’è l’eterno braccio di ferro con Matteo Renzi, cui probabilmente (ma non si può affermare con certezza dato il voto segreto) si deve lo stop.

Ma c’è anche del cinico calcolo. Ora faranno le vittime, potranno brandire nei confronti dei partiti di destra l’accusa di omofobia, oltre a quella di fascismo. E non importa se di lampante mistificazione si tratta. Esattamente come l’antifascismo, la identity politics è un’arma di mobilitazione dell’elettorato di sinistra. Disperata, se vogliamo, ma irrinunciabile per una sinistra a cui, come spiega mirabilmente Max Del Papa nel suo articolo di oggi, non è rimasto molto su cui far leva per raccogliere voti.

In un tweet di ieri sera il segretario del Pd ha spiegato perfettamente a cosa servisse far schiantare il Ddl Zan contro il muro e squadernato il leit motiv propagandistico dell’anno elettorale alle porte.

“Oggi gli italiani hanno visto cosa sarebbe l’Italia governata a maggioranza da queste destre. Cosa sarebbe un Parlamento allineato con gli attuali Parlamenti ungherese e polacco”.

Alla maggioranza degli italiani non fregava assolutamente nulla del Ddl Zan, ha altri problemi. Il nostro codice penale, d’altronde, punisce già atti di violenza, istigazioni e diffamazioni. Non è che senza Ddl Zan sia lecito aggredire, minacciare o diffamare omosessuali e transessuali.

E probabilmente nei calcoli di Letta c’è anche la possibilità di inserire un altro cuneo tra i molti “moderati” nel centrodestra che sarebbero stati pronti, con qualche modifica, a votare il Ddl Zan, e quelle “destre” che invece ritiene estremiste, chiamando i primi a dissociarsi e a rompere l’alleanza con queste ultime per convergere nella coalizione “Ursula”.

Ma noi non siamo tra quelli, anche nel centrodestra, che oggi dicono “peccato, un’occasione mancata” per l’intransigenza di Zan e del Pd, o banalità del tipo “oggi ha perso la politica”… Noi il Ddl Zan non lo avremmo voluto vedere legge in nessun caso, nemmeno nella versione edulcorata che sarebbe potuta uscire dopo un vero negoziato. Perché anche ripulito dalle più evidenti aberrazioni giuridiche, il testo avrebbe previsto (agli artt. 2 e 3) un ampliamento della Legge Mancino, che da un punto di vista liberale riteniamo già assai problematica, scivolosa. L’ha rivendicato, ieri sera, anche lo stesso Alessandro Zan: “La mia è solo l’estensione della Legge Mancino”. Esatto, e già solo per questo non andava votata. Sui reati d’opinione non c’è spazio per ulteriori zone d’ombra.

Atti di violenza e istigazione a delinquere, come già ricordato, sono già oggi puniti dal nostro ordinamento. E lo sono nei confronti di chiunque, senza alcuna distinzione con riguardo all’identità della vittima. Il Ddl Zan non aggiungeva diritti o tutele, né la sua mancata approvazione ne toglie a qualcuno, era il vessillo di una battaglia culturale, certo legittima, ma che si voleva combattere puntando contro gli avversari l’arma impropria del diritto penale, e per ciò pericolosissimo. Un attacco, questo sì oscurantista, alla libertà d’espressione.

Abbiamo già approfondito, siamo entrati più volte nel merito del Ddl Zan su Atlantico Quotidiano, con firme autorevoli, professori universitari e giuristi di cultura liberale. Dagli appunti del professor Franco Carinci (1 e 2) a quelli del professor Dino Cofrancesco, che oltre un anno fa tracciava una netta linea di demarcazione: “La libertà di odio non me la leva nessuno e, del resto, a sinistra, contro sovranisti e populisti, se ne usa ed abusa … L’incitazione alla violenza, invece, è un diritto che nessuna democrazia liberale può riconoscere”.

Con Andrea Venanzoni abbiamo proposto un’analisi tecnico-giuridica del disegno di legge, concludendo che si tratta di un testo “pericoloso”, per la sua “impostazione generale regressiva e panpenalistica, culturalmente orientata a rispondere a un problema, reale o potenziale che davvero sia, mediante la criminalizzazione generalizzata”.

Vengono introdotti nel codice penale “concetti che esulano del tutto dall’orizzonte del diritto innervandosi invece nelle prospettive della psicologia, della antropologia, della sessuologia, concetti accademici su cui ferve dibattito e scarseggia univocità definitoria”. “La evanescenza delle definizioni, dei beni giuridici sottesi e protetti – spiegava Venanzoni – è maglia larga che finisce per irradiare la sfera di punizione al di là della mera attitudine criminale materiale, l’atto di violenza, per involgere, al contrario, anche espressioni concettuali ed opinioni vertenti su aspetti non univoci”.

Per esempio, secondo l’articolo 1, una persona potrebbe essere chiamata a rispondere di un reato in riferimento a “percezione” e “manifestazione di sé” della vittima: discriminare non in senso fattuale e sulla base di presupposti acclarabili, anche in termini di evidenze probatorie, bensì sulla base di elementi da foro interiore, psichici, soggettivi, inconoscibili dal lato del presunto “aggressore”. L’articolo 4, sotto l’apparente e suadente tutela del pluralismo delle opinioni, spara ad alzo zero contro le opinioni sgradite, mediante la subdola clausola “purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti”, in cui sembra riecheggiare un triste passato in cui romanzi, poesie, canzoni venivano portati in giudizio in quanto ritenuti ispiratori di fatti delittuosi.

Tornando all’analisi politica, i partiti di centrodestra non hanno molto di cui rallegrarsi per il voto di ieri al Senato: hanno ottenuto un successo sul piano della tecnica parlamentare, ma non una vittoria politica e culturale. Innanzitutto, perché se il Ddl Zan è stato bloccato, lo si deve probabilmente in modo decisivo ad un pezzo di centrosinistra che per motivi tattici ha deciso che andasse così. Ma anche perché c’è mancato davvero molto poco perché molti dello stesso centrodestra, almeno nei partiti dell’attuale maggioranza, lo votassero convintamente.

No, oggi non sospiriamo per una occasione mancata, per una “legge di civiltà” sfumata dopo essere stata a portata di mano. Siamo sollevati pensando allo scampato pericolo per la libertà d’espressione, che però è ancora, tutti i giorni, sotto la minaccia oscurantista della identity politics, del politicamente corretto e della cancel culture. Devono svegliarsi i partiti di destra e comprendere che non possono ridursi a giocare in difesa, perché non sempre riusciranno a buttare la palla in tribuna come ieri.

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