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Il Sultano a Roma: gli interessi dell’Italia e le ambizioni neo-ottomane di Erdogan

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La visita del Presidente Erdogan in Italia, prescindendo dai temi più generali che sono alla base dell’attuale ”problema turco” sia in ambito NATO che in quello dell’Unione Europea, assume un’importanza significativa in merito a tre fondamentali questioni che interessano il nostro paese: gli equilibri politici in Libia e in Tunisia; il riconoscimento americano di Gerusalemme quale capitale di Israele; i rapporti economici con un paese di cui l’Italia è attualmente il terzo partner commerciale.

La Turchia è stata tra i principali sostenitori politico-ideologici e tra i maggiori finanziatori delle ”primavere arabe” in nordafrica e, nonostante il sostanziale fallimento di quei processi, continua ad avere un’influenza significativa sulle milizie islamiste legate alla Fratellanza Musulmana operanti in tripolitania, nonchè sulle espressioni politiche dell’Islam popolare tunisino. Si tratta di due quadranti strategici che vedono il nostro paese impegnato sul campo nel tentativo di favorire la stabilizzazione dell’area, sia in un’ottica di proiezione geopolitica nel bacino del mediterraneo, che di controllo dei flussi migratori. Se, dunque, la Turchia rappresenta geograficamente la porta d’accesso all’Europa per diversi milioni di profughi siriani, attualmente residenti nei campi profughi turchi, essa riveste un ruolo significativo anche nel teatro nordafricano e rappresenta, pertanto, un interlocutore obbligato per l’Italia.

Quanto alla questione di Gerusalemme capitale d’Israele, Erdogan cerca nel sostegno del Papa e del Governo italiano un sostanziale riconoscimento del proprio ruolo in Medio Oriente e, in senso più ampio, nel mondo islamico, quale principale difensore della causa palestinese. Tale disegno, oltre a tentare di restituire un nuovo respiro strategico alla proiezione geopolitica turca, dopo il sostanziale fallimento dell’esperienza delle primavere arabe, evidenzia anche un’esigenza propagandistica volta al rafforzamento del Presidente turco sul piano interno.

In merito alla terza e ultima questione, ossia l’incremento dei rapporti economici tra i due paesi – Erdogan ha incontrato una nutrita delegazione di imprenditori italiani – questa si colloca sullo sfondo della reiterata richiesta turca di adesione effettiva all’Unione Europea. Il Presidente ha infatti annunciato la volontà di condurre il proprio paese tra le dieci economie più sviluppate del mondo, e vede nell’integrazione economica europea la strada più sicura per ottenere un tale risultato. L’atteggiamento del Governo italiano di fronte all’assertività di Erdogan è stato improntato ad un prudente realismo, che ha indotto ad un sostanziale quanto forzato bilanciamento tra i principali dossier in discussione. Se da più parti è stata invocata una presa di posizione più netta in rapporto al rispetto delle libertà politiche in Turchia, oppure in merito alla questione dei curdi siriani, è evidente come la spregiudicata politica estera adottata da Erdogan in questi anni, incautamente sostenuta ed affiancata dall’Amministrazione Obama e da altri paesi europei, gli abbia conferito una centralità oggi difficilmente aggirabile. Sebbene Trump abbia ribaltato la posizione americana rispetto al cosiddetto Islam ”popolare” e alle sue principali espressioni politiche, non risulta ancora chiara la strategia relativa all’orientamento ”neo-ottomano” di Ankara e alla sua pervasività nei principali teatri geopolitici mediterranei e mediorientali.

L’Islam politico turco ha mostrato nel tempo una grande abilità nel trarre il massimo vantaggio dal proprio rapporto con l’Occidente che, viceversa, si è spesso rivelato incapace di inquadrare ed interpretare correttamente questa specifica realtà. Se, nel secondo dopoguerra, furono gli Stati Uniti a sollecitare al governo kemalista turco la concessione di maggiori spazi di libertà alla religione e alle organizzazioni islamiche, al fine di arginare la penetrazione ideologica comunista in quello che era l’estremo bastione orientale dell’Alleanza Atlantica, più recentemente sono state le condizioni poste per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, a limitare, di fatto, le possibilità di ingerenza politica dei militari, nonché la loro storica funzione di tutela della natura laica dello Stato. Paradossalmente, il processo di avvicinamento all’Unione Europea ha favorito la destrutturazione dello Stato laico kemalista e l’affermazione progressiva dell’Islam politico.

La svolta impressa da Trump con il sostegno al ”nuovo corso” saudita, e con il ritorno di Israele quale principale perno strategico delle politiche americane nell’area, ha messo all’angolo le aspirazioni da grande potenza regionale della Turchia, le cui sortite sembrano essere sempre più compatibili con un ruolo da competitore che non da alleato degli Stati Uniti. Se nella precedente visione obamiana del Medio Oriente e del mondo islamico in generale, l’Islam popolare sostenuto da Turchia e Qatar aveva una funzione strategica assieme allo sdoganamento dell’Iran, oggi, in un quadro che sembra essersi ribaltato, Erdogan non si mostra intenzionato ad accettare un nuovo assetto. In quest’ottica, la visita in Vaticano ha rappresentato anche, e forse soprattutto, il tentativo di far emergere un punto di vista interno all’Occidente, non in linea con il nuovo orientamento della politica americana in Medio Oriente. In una fase quasi senza precedenti, caratterizzata da forti tensioni interne agli Stati Uniti, nonché tra gli USA e i paesi europei, il Sultano, egli stesso membro della NATO, prova a testare la solidità dell’alleanza occidentale.

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