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Trump può giocare la “carta cinese” contro Biden, il miglior amico di Pechino a Washington

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In tempi di pandemia, è ovvio che anche i candidati alla presidenza Usa devono trovare temi in grado di convincere i cittadini circa la bontà del loro programma. E non è detto che i danni prodotti dal coronavirus siano l’unico argomento in grado di mobilitare l’elettorato.

Stabilito che a contendersi la Casa Bianca saranno Donald Trump e Joe Biden, la strategia dell’ex vice di Barack Obama appare ancora nebulosa. Per ora si accontenta di essere riuscito a riunire i Democratici attorno al suo nome e, soprattutto, di aver evitato che la sinistra di Bernie Sanders gli negasse l’appoggio nella corsa finale.

Per quanto riguarda l’attuale presidente, invece, è sempre più evidente che Trump giocherà fino in fondo la “carta cinese”. In effetti, ha già sfruttato con perizia l’opacità di Pechino nella diffusione iniziale delle notizie e l’emarginazione (o peggio) dei medici di Wuhan che avevano cercato di informare il mondo della pericolosità del nuovo virus.

Ed è pure pronto ad approfittare di eventuali novità riguardanti gli ormai celebri laboratori di Wuhan. Chi cerca di capire se nei suddetti laboratori si sia davvero verificato un incidente che ha innescato la pandemia viene spesso accusato di “complottismo”, tanto dal governo cinese quanto dagli organi d’informazione occidentali che adottano una linea pro-Pechino. La questione, tuttavia, è tutt’altro che chiusa, e sono numerosi i governi e i giornali che continuano ad indagare.

Sul problema delle relazioni con la Repubblica Popolare Trump può vantarsi di aver assunto da subito una linea ben più precisa e ferma dei suoi predecessori. Si è accorto, in altri termini, che la globalizzazione, spesso definita “americana” in un passato anche recente, era ormai diventata “cinese” a tutti gli effetti, causando uno squilibrio evidente nei rapporti di forza tra la Cina da un lato e gli Stati Uniti dall’altro. Tale squilibrio riguarda, in realtà, anche il nostro continente, ma gli europei hanno reagito con maggiore ritardo.

È stato molto criticato, il presidente Usa, per la “guerra dei dazi” che ha scatenato contro Pechino. Alcuni, per esempio, hanno notato che una tale guerra danneggia anche gli Stati Uniti a causa della forte interconnessione economica dei due Paesi. Eppure, mette conto notare che i dazi sono stati efficaci, soprattutto perché hanno indotto Xi Jinping e il suo gruppo dirigente a cercare un accomodamento che prima non rientrava nei loro piani.

La globalizzazione è diventata cinese perché le precedenti amministrazioni americane hanno permesso l’esternalizzazione di un grande numero di aziende e di posti di lavoro in Cina. Il business con Pechino veniva visto con molto favore a causa del basso costo del lavoro cinese, dovuto al fatto che i sindacati locali non godono di alcuna indipendenza dal governo. Sono, per usare una celebre espressione italiana dei decenni passati, delle “cinghie di trasmissione” legate al Partito comunista.

A ciò va aggiunto che i cinesi hanno approfittato dell’apertura dei mercati occidentali, ma hanno tenuto in gran parte chiusi i loro. Non rispettano inoltre le regole della proprietà intellettuale, e forniscono alle loro aziende ingenti aiuti di Stato che, spesso, servono anche ad acquisire il controllo di industrie strategiche straniere. Trump sta per esempio cercando di proteggere il settore hi tech dalle incursioni di Pechino.

Queste vicende avrebbero minore importanza se, a confrontarsi, fossero due “società aperte”. Quella cinese, tuttavia, non lo è affatto. Aziende e managers sono sempre legati a doppio filo al partito unico, il che permette al governo – che con il partito s’identifica – di controllare in toto la propria economia.

Ma non si tratta soltanto degli aspetti economici e finanziari della globalizzazione. La Repubblica Popolare ha da tempo lanciato una campagna volta ad esaltare la sua struttura politica e istituzionale – basata sul partito unico – quale “modello” da imitare, in concorrenza con quello liberal-democratico giudicato debole e inefficiente.

Tuttavia molti hanno ormai capito il trucco. Non è certo un caso che la Svezia abbia deciso di chiudere tutti gli “Istituti Confucio” presenti sul suo territorio, giudicandoli centri attraverso i quali Pechino propaganda il suo modello all’interno delle università occidentali.

Tornando ora al tema iniziale, è arduo fare previsioni circa gli sviluppi della campagna elettorale Usa in presenza della pandemia che sta causando danni ingentissimi anche negli Stati Uniti. Resta però il fatto che Donald Trump può far leva sull’atteggiamento fermo nei confronti della Cina, argomento sul quale Biden manifesta invece una notevole debolezza.

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