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Virus uscito da un laboratorio cinese: i media liberal nostrani “scoprono” l’ipotesi silenziata e dileggiata per mesi

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Si avvicina il 6 gennaio e Linkiesta ha finalmente la sua epifania. Il quotidiano online diretto da Christian Rocca ha pubblicato proprio ieri un articolo redazionale in cui fa riferimento per la prima volta all’ipotesi che il coronavirus cinese non provenga dal mercato del pesce di Wuhan ma sia, in realtà, il risultato di una fuga accidentale da uno dei laboratori della città epicentro della pandemia. L’anonimo autore del pezzo cita una brillante indagine giornalistica del New York Magazine (nella persona di Nicholson Baker), la cui lettura integrale consiglio vivamente. Baker ha passato mesi tra interviste ad esperti e consultazione di documenti scientifici per giungere alla conclusione che “la teoria tabù” (Linkiesta dixit) dell’origine non naturale dell’agente patogeno è tutt’altro che inverosimile. E la soluzione più semplice, secondo Baker è questa:

È stato un incidente. Un virus ha trascorso un po’ di tempo in un laboratorio e alla fine è uscito. Sars-CoV-2, il virus che ha causato il Covid-19, ha iniziato la sua esistenza all’interno di un pipistrello, poi ha imparato a infettare le persone in un pozzo di miniera claustrofobica, e poi è stato reso più contagioso in uno o più laboratori, forse come parte dello sforzo ben intenzionato ma rischioso di uno scienziato di creare un vaccino ad ampio spettro.

E ancora:

Sarebbe poco credibile la tesi finora dominante che un pipistrello col coronavirus abbia infettato un’altra creatura (alcuni dicono un pangolino) e che questa creatura già malata di una diversa malattia di coronavirus abbia a sua volta fatto da shaker vivente unendo questi due ceppi in una nuova malattia.

I lettori assidui di Atlantico Quotidiano sanno però già da tempo che “la tesi finora dominante” era stata messa in discussione più volte da diversi esperti virologi americani, australiani e perfino cinesi, nonché da alcune prestigiose testate di tendenza non certo reazionaria o complottista, come il Washington Post. Il tutto nell’assoluto silenzio non solo de Linkiesta ma della quasi totalità della stampa italiana che non ha ritenuto opportuno e necessario, in nove lunghi mesi di martellamento sul Covid-19, porsi qualche domanda sulla vera grande incognita di questa tragedia planetaria: quale sia l’origine reale della pandemia.

Anzi, chi ha avuto voglia di farsela questa domanda e di cercare qualche risposta per proporla ai propri lettori è stato generalmente accolto da un silenzio supponente, quando non dal dileggio esplicito e dall’ostracismo abituale nell’impermeabile corporativismo da casta che domina il giornalismo nostrano: i soliti trumpiani anti-cinesi, dilettanti allo sbaraglio. Ma il vezzo pseudo-progressista che impone di accettare le verità ufficiali (anche quelle dei dittatori) e di screditare il lavoro dei non allineati è duro a morire, anche quando la realtà finalmente ti assale. E Linkiesta ci ricasca già nelle prime righe dell’anonimo articolo quando, per giustificare il buco giornalistico, suggerisce che quella della fuga da un laboratorio di Wuhan sia stata “una suggestione sulla bocca di tutti i commentatori da bar”, considerata dall’opinione pubblica “come l’ennesima teoria del complotto”. L’opinione pubblica ovviamente sono i giornalisti de Linkiesta (in folta compagnia, peraltro).

Eppure, io non ricordo di aver messo piede in nessun bar (c’era il lockdown, dev’essere per quello) mentre mi documentavo per giorni prima di scrivere il primo pezzo sull’origine del virus, pubblicato da Atlantico Quotidiano lo scorso 6 aprile, il cui titolo recitava: “Troppi morti per fidarsi di Pechino: ecco perché non possiamo escludere che il Wuhan Virus sia uscito dai laboratori cinesi”. Ci piace essere chiari nell’esposizione. A ben leggere ci si poteva trovare già allora la maggior parte delle informazioni che alla redazione de Linkiesta sono state svelate solo ieri: i dubbi su come fossero arrivati i pipistrelli dalle grotte dello Yunnan e dello Zhejiang al mercato del pesce di Wuhan, l’impossibilità di confermare l’esistenza di un ospite intermedio (il famoso pangolino), cos’erano e che esperimenti stavano effettuando sui coronavirus i due principali laboratori biologici di Wuhan, l’esistenza di precedenti incidenti con agenti patogeni, l’ipotesi della fuga accidentale prospettata dai ricercatori cinesi Botao Xiao e Lei Xiao in un documento poi secretato, e molto altro ancora.

Non che il sottoscritto sia Sherlock Holmes: bastava aver voglia di leggere, confrontare le fonti, consultare le cartine, mettere insieme i dati e le opinioni degli esperti, per giungere alla conclusione che la versione ufficiale di Pechino non era l’unica possibile. Pochi giorni dopo, il 15 aprile, tornava sull’argomento Federico Punzi, sottolineando i dubbi dell’amministrazione Usa sui sistemi di sicurezza dei laboratori in questione, in base a quanto riferito sul Washington Post dall’analista Josh Rogin, e concludendo:

“L’idea che sia stato un evento del tutto naturale è circostanziale. Le prove che sia uscito dal laboratorio sono anch’esse circostanziali”, ma in questo momento, ribadisce il funzionario sentito da Rogin, sul lato di quest’ultima ipotesi c’è un elenco di punti, sull’altro lato quasi nulla.

Il 17 aprile mantenevamo il punto fornendo ulteriori dettagli sulle indagini dell’intelligence americana, mentre il 23 aprile Marco Cesario si soffermava con dovizia di particolari sulla joint venture franco-cinese all’origine del Wuhan Institute of Virology. Quattro approfondimenti in due settimane, mentre i mainstream media erano impegnati a seguire l’arrivo degli aiuti provenienti dalla Cina. Poi c’è la storia pazzesca di Li-Meng Yan, la virologa costretta a fuggire negli Stati Uniti dopo aver denunciato il cover-up del governo cinese e poi censurata da Twitter proprio per aver postulato l’origine artificiale del coronavirus. Anche qui, silenzio stampa. Insomma, per essere solo chiacchiere “da bar” c’era un bel po’ di informazione disponibile in rete, a volerla studiare.

Sarei però ingeneroso con la redazione filo-cinese de Il Manifesto se non riconoscessi che il 6 maggio il quotidiano comunista pubblicava un pezzo a firma di Andrea Capocci in cui si occupava del problema dei laboratori di Wuhan. Solo che lo faceva per attribuire erroneamente a Trump l’affermazione secondo cui il coronavirus era stato “creato” nei centri di ricerca cinesi: bufala, teoria del complotto, teorie pseudo-scientifiche. Peccato che l’amministrazione americana non avesse mai suggerito tale ipotesi ma, come già spiegato, solo quella del leak accidentale. Pochi giorni prima il vate della cinesità in Italia, Simone Pieranni (Il Manifesto anche lui), aveva insinuato con le stesse parole (riferendosi quindi alla “creazione”) ai microfoni di Radio Rai la bufala (questa sì) anti-trumpiana, senza che l’intervistatore lo smentisse.

Una congiura del silenzio da parte della stampa italiana? Sarebbe presumere troppo. Semplicemente un riflesso ideologico mai spento (nel caso sopracitato) e una non meno preoccupante pigrizia intellettuale unita a un certo timore reverenziale nel criticare il grande manovratore cinese (negli altri casi), la cui immoral suasion è ormai data per scontata nella maggior parte delle redazioni italiane. Come spiegare altrimenti che l’esperta in cose asiatiche de Il Foglio, la brava Giulia Pompili, capace di spaziare con disinvoltura dalla cinematografia coreana, ai vertici euro-cinesi, alla consistenza degli involtini primavera, non abbia trovato il tempo di riservare, se non per liquidarla frettolosamente, non dico un articolo di approfondimento ma nemmeno un misero tweet a una questione a cui – non i dilettanti allo sbaraglio di Atlantico Quotidiano (quelli non si citano per definizione) – ma il prestigioso New York Magazine ha deciso alla fine di dedicare una storia di copertina? Dicono che il tempo sia galantuomo. Noi restiamo seduti ad aspettare. Intanto continuiamo a lavorare.

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