Deceduta nel luglio del 2019, la filosofa ebrea-ungherese Ágnes Heller è stata una delle voci più libere ed eclettiche dell’Europa contemporanea.
In gioventù riuscì a sfuggire all’Olocausto, ma il nazismo le strappò per sempre il padre, Pál Heller. Allieva di György Lukács, sotto la sua influenza divenne una marxista critica, con convinzioni e valori che la portarono regolarmente in conflitto con il Partito Comunista al governo nel Dopoguerra. Costretta all’esilio nel 1977, Heller ha insegnato prima in Australia e poi negli Stati Uniti. A New York è succeduta ad Hannah Arendt come professoressa di filosofia politica alla New School for Social Research.
Il caso ungherese
Poi, in anni più recenti, è tornata a Budapest, dove si è distinta per le sue severe critiche al governo di Viktor Orbán. Al “caso ungherese” ha dedicato un agile saggio intitolato “Orbanismo. Dalla democrazia liberale alla tirannia”.
La Heller muove da una considerazione dell’amata Hannah Arendt: liberazione non significa ancora libertà. L’Ungheria, dopo la fine del regime comunista di János Kádár, il paternalistico teorico del Comunismo Goulash, è riuscita a costituire ma non a consolidare uno Stato di diritto funzionante né a insufflare nella popolazione una coscienza civile sufficiente per resistere alle sirene populiste e alla demagogia ungarista.
L’origine di questa mancanza è ricercata dalla filosofa nella storia ungherese, priva di una solida tradizione liberaldemocratica, in una popolazione diseducata sotto il profilo del senso civico, abituata a far valere un solo diritto, lo ius supplicationis, ossia il diritto di chiedere favori ai padroni di turno, come nella impreparazione delle élites post-comuniste, incapaci di guidare il processo di democratizzazione.
Tirannia post-moderna
In un quadro socio-politico caratterizzato da forti delusioni e da un crescente malcontento, Viktor Orbán, dopo aver egemonizzato il suo partito, Fidesz, portandolo dalla sinistra alla destra dello spettro politico, si è gradualmente imposto come leader carismatico. L’Ungheria, da allora, si è trasformata in quella che Heller definisce tirannia post-moderna.
Si tratta di un sistema di potere fortemente centralizzato dove il presidente, al tempo stesso capo del partito e del governo, distribuisce posizioni, cariche e denaro creando una oligarchia dai tratti neofeudali, che ricorda quella della Russia di Vladimir Putin. Orbán può rendere enormemente ricche le persone, come ha fatto con l’amico Mészáros, un ex benzinaio divenuto uno degli uomini più ricchi d’Ungheria.
Una pratica che apparenta Orbán a Viktor Yanukovych, la marionetta di Mosca che governava l’Ucraina prima di Euromaidan, che fece diventare suo figlio, Oleksandr, uno degli uomini più ricchi del Paese con un patrimonio personale superiore a 500 milioni di dollari. Allo stesso modo, può privare gli oligarchi delle loro fonti di guadagno, come è avvenuto con Simicksa. Orbán può legittimamente dire: L’état, c’est moi.
Il presidente magiaro, nonostante la diffusa corruzione e le attività predatorie della sua cerchia affaristica, è riuscito a guadagnarsi il voto popolare facendo leva sui sentimenti nazionalistici e usando la religione come instrumentum regni, quando in realtà è interessato solo al potere. Orbán si presenta come un difensore della cristianità ma, rivolgendosi a Erdoğan, ha esaltato la “grande amicizia” tra turchi e ungheresi. Esprime posizioni filo-israeliane eppure ha fatto ricorso a stereotipi antisemiti per attaccare il suo grande nemico, ovverosia George Soros.
Etnocrazia
Ágnes Heller dedica diverse pagine ai tentativi del governo ungherese di controllare la cultura e, soprattutto, le università, imponendo un politicamente corretto “di destra” che minaccia la libertà accademica. Orbán è responsabile della chiusura dell’Università dell’Europa Centrale, un’istituzione accademica privata fondata da Soros e diretta, al tempo della controversia col governo magiaro, da Michael Ignatieff, filosofo liberale e biografo di Isaiah Berlin.
Orbán e la sua oligarchia sono diventati sempre più intolleranti nei confronti dell’opposizione. Le indiscutibili vittorie ottenute da Fidesz alle elezioni hanno reso il comandante in capo incapace di riconoscere la propria fallibilità. L’Ungheria è diventata gradualmente più provinciale e isolata: l’etnocrazia ha cominciato a soffocare la democrazia. Quella che, un quarto di secolo fa, era la superba promessa di reinventare la politica attraverso un rilancio del liberalismo e del civismo, ora sembra destinata a trasformarsi in un incubo neo-autoritario.
Crisi della democrazia liberale
Viktor Orbán ha dichiarato che la democrazia liberale è in declino. Si è assunto la responsabilità di diventare il campione di un autoritarismo che, senza pudore, esalta la Russia di Putin e il “leninismo di mercato” cinese. Contro un liberalismo presentato come corrotto e decadente, si esalta un corpo politico omogeneo ed “etnicamente” sano.
La democrazia liberale, in tempi di crisi, sia morale che economica, per via della sua formalità e delle sue regole, viene attaccata sia da sinistra che da destra. Che si tratti di Vladimir Lenin, Georges Sorel o Robert Michels, le critiche derivano tutte, in una certa misura, dalle idee di Jean-Jacques Rousseau e si ispirano all’immagine di una democrazia “diretta” e immediata.
Per Orban, la democrazia liberale – con tutte le sue istituzioni, i suoi corpi intermedi e giochi parlamentari – crea solo una terribile confusione, che può essere superata, in via esclusiva, attraverso un leader forte con cui il popolo si possa identificare. Orbán si vede come il nuovo “buon padre” dell’Ungheria.
Questa, ovviamente, non è una novità, ciò che vi è di nuovo riguarda la metamorfosi di un politico che ha raggiunto l’apice del potere come partigiano dei valori liberali, per poi trasformarsi in un sostenitore dei valori opposti nell’arco di un decennio.
Di fronte alle sirene autoritarie e illiberali non resta che opporre la disincantata lucidità di Ágnes Heller:
La democrazia liberale è il solo sistema che offre un certo tipo di libertà per l’individuo e per i gruppi sociali ed etnici e che garantisce una pluralità di tradizioni e di modi di vivere. Di conseguenza, è l’unico sistema politico che merita di essere difeso, se non adorato.