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Coronavirus da laboratorio: l’ipotesi “proibita” si arricchisce di nuovi elementi

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Su Atlantico Quotidiano ci siamo occupati a più riprese di un tema che continua a risultare indigesto alla stampa mainstream italiana: la possibile fuoriuscita accidentale del coronavirus da uno dei laboratori di Wuhan. Non l’abbiamo fatto per alimentare teorie complottiste (a nostro avviso le responsabilità cinesi nella pandemia globale sono in ogni caso di prim’ordine) ma semplicemente perché ci è parso fin da subito un filone degno della massima attenzione, in base a una considerazione di partenza dettata dal semplice buon senso: l’ipotesi che il Sars-CoV-2 abbia cominciato a diffondersi per cause naturali e indipendenti a pochi chilometri da uno dei più importanti centri di investigazione virologica del mondo, specializzato precisamente nello studio dei coronavirus, continua a sembrarci piuttosto difficile da accettare come un dogma. Stupisce la scarsa attenzione che sta ricevendo soprattutto in Europa la ricerca delle cause reali della pandemia, come se si trattasse di un mero esercizio di stile e non della principale garanzia di prevenzione di eventuali future emergenze sanitarie globali.

Va ricordato che nemmeno la missione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che ha visitato i luoghi dell’epidemia il mese scorso sotto stretta sorveglianza cinese, ha potuto escludere completamente l’ipotesi della fuga da laboratorio, limitandosi a sottolineare come in assenza di prove certe sull’origine del virus anche questa rimanesse un’opzione aperta.

Negli ultimi giorni della presidenza Trump il Dipartimento di Stato americano si è dimostrato specialmente assertivo sull’argomento, ribadendo la linea della responsabilità cinese nell’occultamento di informazioni rilevanti per la comunità scientifica internazionale. In un documento del 15 gennaio l’allora segretario di Stato Mike Pompeo faceva riferimento a tre aspetti principali non ancora chiariti dalle autorità di Pechino: la natura degli esperimenti realizzati all’interno del Wuhan Institute of Virology (WIV), destinati ad aumentare la potenza e la trasmissibilità dei coronavirus (gain of function); i progetti di collaborazione con le forze armate cinesi; le patologie di alcuni ricercatori del centro che presentavano già nell’autunno del 2019 sintomi compatibili con quello che pochi mesi dopo sarebbe stato conosciuto in tutto il mondo come Covid-19.

Su quest’ultimo punto è tornato ieri il quotidiano australiano The Australian, confermando la veracità di un’informazione su cui l’intelligence e il governo americani stanno lavorando da tempo: due mesi prima dell’annuncio ufficiale della scoperta del coronavirus di Wuhan, alcuni impiegati del WIV che lavoravano nella catena di sperimentazione erano stati ricoverati in ospedale dopo essersi sentiti male. La convalida di questo dato, sempre smentito dai responsabili cinesi del laboratorio ma indirettamente corroborato anche da un’inviata dell’OMS, Marion Koopmans, potrebbe cambiare totalmente la prospettiva fino ad oggi prevalente: se due mesi prima dell’inizio dell’epidemia si fossero davvero registrati nel WIV casi di malattia compatibili con il Covid-19, le probabilità che il contagio si sia originato proprio all’interno del laboratorio aumenterebbero in maniera esponenziale, anche in considerazione del fatto che attualmente non esiste nessuna origine alternativa dimostrabile con prove certe.

È verosimile che quando Pompeo dichiarò di essere in possesso di “enormous evidence” sulle responsabilità del laboratorio di Wuhan facesse riferimento, tra l’altro, a questi elementi di fatto, all’epoca ancora oggetto di studio ma attualmente dati per assodati da fonti dell’intelligence americana. Secondo David Asher, ex capo della task force del Dipartimento di Stato incaricata delle indagini sull’origine del coronavirus, il Sars-CoV-2 sarebbe emerso nel corso di esperimenti su vaccini da utilizzare come antidoto in caso di attacchi con armi biologiche. La ricerca sarebbe stata promossa e sovvenzionata direttamente dall’Esercito di Liberazione Popolare, il che dimostrerebbe la duplice funzione del WIV come installazione civile e militare allo stesso tempo.

I problemi di sicurezza dei laboratori cinesi sono da anni materia di discussione e fonte di preoccupazione negli Stati Uniti. Josh Rogin, giornalista del Washington Post che ha seguito fin dall’inizio la pista della fuga accidentale, ha rivelato recentemente che, già alla fine del 2017, un gruppo di esperti dell’ambasciata statunitense a Pechino visitò il WIV e raccolse le inquietudini di alcuni ricercatori cinesi sul livello di preparazione dei tecnici e sui protocolli di garanzia sanitaria: “Gli scienziati di Wuhan chiedevano supporto per portare il laboratorio ai massimi standard”, spiega Rogin, che aggiunge: “I diplomatici inviarono due dispacci a Washington (…) questi due punti – un gruppo di virus particolarmente pericolosi, studiati in un laboratorio con rilevanti problemi di sicurezza – erano da interpretarsi come un avvertimento su una potenziale emergenza di salute pubblica (…) Ma non ci fu risposta dalla sede del Dipartimento di Stato e i dispacci non vennero mai resi pubblici. E mentre le tensioni tra Stati Uniti e Cina aumentavano nel corso del 2018, i diplomatici americani persero la possibilità di accedere a laboratori come il WIV”.

Riassumendo: accumulazione di campioni di coronavirus nel Wuhan Institute of Virology; manipolazione degli stessi da parte di tecnici inesperti; standard di sicurezza insufficienti; processi di potenziamento dei virus trattati; possibili esperimenti per creare antidoti in caso di attacco biologico in collaborazione con le forze armate cinesi; ricercatori del laboratorio contagiati e ricoverati in ospedale due mesi prima dell’inizio ufficiale della pandemia; nessuna traccia di ospiti intermedi nel passaggio del virus dai pipistrelli all’uomo. C’è materiale sufficiente per continuare a occuparsene.

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