Economia

Ecco perché i dazi non sono una guerra e i contro-dazi sarebbero un errore

La via di un accordo win-win con gli Usa. Dazi distorsivi come le tasse, intervento statalista che fa danni. Ma dei dazi trumpiani non va giù che mettano in discussione un mondo “senza confini”

Trump dazi (Fox News)

I dazi decisi dall’amministrazione Trump nei confronti del resto del mondo, e quindi anche dell’Europa, non sono una buona notizia. Al tempo stesso la questione deve essere gestita con razionalità e pragmatismo, evitando l’isteria mediatica a cui assistiamo sempre e solo quando “qualche cosa” viene fatta da “qualcuno di destra”.

L’ipocrisia sui dazi

La prima osservazione che meriterebbe di essere fatta è che i dazi non li ha inventati Trump. Ci sono sempre stati. Esistono da secoli, per quanto gli ultimi decenni abbiano visto un percorso verso una loro riduzione.

I dazi erano applicati, sia pure in modo più circoscritto, sotto le precedenti amministrazioni Usa e sono applicati anche dall’Unione europea. Sono stati sempre considerati, finora, uno strumento legittimo dalla politica mainstream.

Il processo verso mercati più aperti è da sempre sostenuto da chi abbia idee liberali, ma non è mai stato oggetto di eccessiva attenzione pubblica – anzi era, in generale, considerato un argomento da addetti ai lavori. “Grazie” a Trump, molti a sinistra sembrano aver scoperto da un giorno all’altro i benefici del libero commercio – e spesso si tratta delle stesse persone che, fino a pochi giorni fa, si lamentavano della “globalizzazione senza regole” e si agitavano nella difesa di tutto quello che era “local” e “a chilometro zero”.

Dazi no, tasse sì?

Da un momento all’altro queste persone hanno scoperto che l’introduzione di ricarichi negli scambi diminuisce il numero delle interazioni tra i soggetti economici. È vero per i dazi, ma nello stesso senso in cui è vero per l’Iva o per le tasse sul reddito – entrambi istituti fiscali che rendono più difficile l’incontro della domanda e dell’offerta, introducendo un terzo beneficiario della transazione (lo Stato) che fa sì che solo una parte di ciò che paga chi acquista vada effettivamente a chi vende.

Ma i “dazi” sono peggio – dicono – perché sono “distorsivi”. Innanzitutto, meriterebbe far notare che ogni tassa lo è, perché la sua presenza conduce comunque a scelte e ad un’allocazione delle risorse diversa rispetto al caso in cui non ci fosse. Tuttavia, sovente il sistema fiscale è proprio volutamente e apertamente “modulato” – valori di Iva differenziati, esenzioni varie, sconti; ciò avviene per favorire determinate spese rispetto ad altre, nell’ottica di orientare i comportamenti individuali verso comportamenti considerati “più utili” per la società.

Ebbene, così come l’Italia può decidere che le spese per i libri o per la ristrutturazione edilizia siano più utili di quelle sui televisori o sulle calzature (o in termini ideali, o perché riguardano settori specifici che si desidera sostenere), allora Trump può decidere che, per l’America “comprare americano” è più virtuoso che “comprare tedesco”. Insomma, i dazi sono un intervento statalista – l’ennesimo. E sono una tassa – l’ennesima. E per questo faranno danni.

Cosa non va giù dei dazi trumpiani

Ma quello per cui oggi tanti impazziscono quando vengono menzionati i dazi ha poco a che fare con l’economia e molto invece con l’ideologia – cioè con il fatto che, al contrario di altre forme di interventismo, i dazi mettono in discussione il dogma di un mondo “politicamente unico” in cui ogni forma di dirigismo è legittima se decisa “senza confini”.

Stangare i consumatori se comprano bibite zuccherate, alcolici, benzina o orologi di lusso, per generare ricadute sociali positive, va bene; far pagare loro di più beni “stranieri”, in nome di una visione diversa di ricaduta sociale positiva, invece no – perché  la parola “straniero” non può continuare a trovare posto nel vocabolario.

Non è una “guerra”

Se si evita di guardare all’argomento dei dazi attraverso la lente dell’ideologia, forse è possibile ricondurre la discussione a considerazioni economiche più oggettive, a partire dalle quali si può provare a capire come gestire lo scenario che si è venuto a creare.

Tra gli “indignati” delle politiche trumpiane si leva a gran voce la richiesta di una reazione uguale e contraria. Astenersi dal metterla in atto significherebbe consegnare una vittoria strategica al presidente “sovranista” e legittimare una politica ostile ed aggressiva verso l’Europa. Insomma, per quello che essi sostengono, non reagire “contro Trump” sarebbe come non reagire “contro Putin”.

E allora, serve provare ad affrontare lucidamente una questione chiave. È proprio vero che i dazi sono come la guerra e quindi richiedono, come se ci si trovasse di fronte ad un attacco militare, una reazione almeno proporzionale, per non darla vinta all’attaccante?

La risposta, in realtà, è no: i dazi non sono una guerra. Se gli americani, sulla base di una sommatoria di scelte spontanee individuali, decidessero di non aver più bisogno dei nostri prodotti starebbero evidentemente esercitando un loro diritto. Decidono loro di cosa hanno bisogno; noi possiamo legittimamente aspirare ad avere più clienti possibili per i nostri produttori, ma non possiamo pretendere di avere clienti.

Ora, è chiaro che stavolta non siamo in presenza di una semplice sommatoria di scelte individuali, ma di una “decisione collettiva” che la politica americana ha preso attraverso gli strumenti della democrazia e che è “forzante” nei confronti dei cittadini e delle imprese americane. Questo è evidentemente un problema dal punto vista liberale, perché il governo americano sta impostando una regia centralizzata su questioni che dovrebbero essere lasciate alla libera scelta dei cittadini e delle imprese – tuttavia è un esito legittimo di processi democratici interni, e non un’aggressione verso l’esterno.

Un errore i contro-dazi

Ad un attacco militare – ad una guerra – serve necessariamente rispondere perché, in assenza di una risposta, tutti gli incentivi sono a favore dell’attaccante, che può avanzare, conquistare, dominare senza pagare alcun pegno.

Nel caso dei dazi invece, il disincentivo ad andare oltre un certo limite è intrinseco nella loro dimostrata inefficienza economica. Nella visione di Trump potrebbero portare vantaggi per l’economia americana “rimpatriando” posti di lavoro, ma la sensazione è che il trasferimento di capacità produttiva verso gli Stati Uniti non sarà immediato e anche quando i relativi benefici si fossero realizzati, non è per nulla detto che controbilancerebbero i danni prodotti all’economia americana, in termini di inflazione, recessione e di deterioramento di importanti relazioni commerciali a livello mondiale.

Tra l’altro è interessante notare come nella politica del presidente Usa, il ruolo dei dazi oscilli tra una narrazione di benefici intrinseci al mercato del lavoro americano e il loro uso come pedina negoziale per accordi commerciali internazionali più favorevoli. La disponibilità della Casa Bianca ad abbassare – forse persino ad eliminare – i dazi, in casi di accordi commerciali rinegoziati fa intuire che probabilmente per la stessa amministrazione americana un esito di consolidamento dei dazi alti che sono prefigurati in questi giorni non sia quello ideale.

È dunque dall’inefficienza interna dei dazi che emerge la principale speranza di un loro ridimensionamento. Esso potrebbe essere deciso già dall’attuale amministrazione Usa, specie a fronte di qualche concessione da parte degli altri Paesi – ma, se non lo fosse e gli esiti concreti per l’economia reale non fossero all’altezza delle promesse, gli americani avrebbero l’opportunità di correggere la rotta già alle elezioni di midterm del 2026 e, poi, più decisamente alle presidenziali del 2028.

Per le ragioni dette sarebbe un errore che l’Europa applicasse uno schema del tipo “Trump uguale Putin”“dazi uguale invasione dell’Ucraina”. Fortunatamente si sta intravedendo in molti leader europei un atteggiamento di prudenza e di scetticismo rispetto a frettolose chiamate alle armi. È chiaro che l’imposizione di dazi in questa forma rappresenta un danno per molte nostre imprese. Tuttavia, la scelta di contro-dazi sarebbe un errore, colpirebbe i nostri consumatori e anche la nostra aziende che hanno bisogno di un libero accesso a tecnologia e catene di approvvigionamento.

Peraltro, il rischio di ritorsioni sarebbe che, anziché disinnescare i dazi americani, si genererebbe invece un’escalation di norme punitive. Per quanto conosciamo Donald Trump, è improbabile che, in un simile scenario, egli rinunci ad avere l’ultima parola.

Negoziare

L’unico modo di disinnescare, almeno in parte, i dazi decisi dalla Casa Bianca è raggiungere accordi, auspicabilmente win-win, recependo alcuni rilievi legittimi che vengono dagli Stati Uniti alla politica commerciale europea e mettendo sul tavolo anche altri argomenti, come quello degli approvvigionamenti per la difesa europea – se sull’argomento del riarmo l’Europa fa sul serio, oggi sono proprio gli Stati Uniti gli unici da cui è pensabile rifornirci.

Come parte dell’unione doganale Ue, l’Italia non può negoziare da sola, ma c’è ugualmente da sperare che possa avere un ruolo centrale nel facilitare una via negoziale alla crisi che si è aperta. Servono un atteggiamento pragmatico e molta buona volontà; serve soprattutto la consapevolezza che l’amicizia e la collaborazione tra vecchio e nuovo continente – magari su basi rinnovate e scevre da paternalismo o dipendenza – resta essenziale per il futuro della civiltà occidentale.