C’è sempre chi invece della luna, guarda il dito. Capita praticamente sempre con le dichiarazioni di Donald Trump. Giorni fa Daniele Capezzone ricordava la massima dello storico Niall Ferguson: Trump va preso sul serio, non alla lettera.
Come non vediamo nel prossimo futuro i Marines americani invadere la Groenlandia, così non vediamo un Mar-a-Gaza, resort di lusso, golf club e Trump Tower sorgere in riva al mare nella Striscia di Gaza. Questo non significa però che le parole del presidente americano possano essere liquidate come le sparate di un pazzo. Vedremo alla fine di questo articolo chi è il vero “pazzo”.
L’Occidente che non si vergogna
Innanzitutto, in quel “We will own it”, nella proposta di evacuare Gaza e ricostruirla per farne la Riviera del Medio Oriente, come ha osservato ieri il nostro Nonexpedit, c’è un’idea “genuinamente coloniale“, dove “l’ambizione politico-imperialista è quasi offuscata da quella imprenditoriale”. Che abbia un seguito o meno, importa poco. Che Trump si sia espresso in quei termini, senza pudori politicamente corretti, rappresenta un Occidente che ha smesso di vergognarsi.
Un problema pratico
A chi si scandalizza c’è da far notare innanzitutto un dato di fatto. Gaza è devastata, un cumulo di macerie, e nel sottosuolo ci sono ancora centinaia di chilometri di tunnel di Hamas. Come si fa a ricostruirla con centinaia di migliaia di civili e jihadisti ancora sopra, in mezzo e sotto le macerie? Di tutta evidenza, non si può.
A meno di non accettare che Hamas conservi la sua presa sulla Striscia, torni lentamente a gestire gli aiuti e a regolare la vita quotidiana – e probabilmente anche a riarmarsi. Insomma, un ritorno allo status quo ante, sebbene lentissimo.
Ma ciò è evidentemente inaccettabile – e dovrebbe esserlo non solo per Israele, ma per chiunque. Quindi esiste innanzitutto un problema pratico: per ricostruire Gaza i civili devono allontanarsi per un periodo di tempo non breve. E per assicurare loro un presente e un futuro dignitosi, dovrebbero essere accolti nei Paesi arabi vicini, non stipati per anni in tendopoli accanto alle macerie in attesa dell’arrivo di un camion di aiuti. Qualcuno deciderà di tornare, qualcun altro nel frattempo si sarà rifatto una vita e deciderà di non tornare.
Soluzioni nuove
Ecco perché quando Trump lancia l’idea, di fatto, di un protettorato Usa a Gaza, non va preso alla lettera ma va preso sul serio. È il primo ad avanzare un’idea originale per il dopoguerra. Un dopoguerra che è tutto da immaginare, da inventare, perché i piani del passato hanno tutti fallito.
I leader e i commentatori europei stringono a sé la apparentemente magnanima soluzione dei due stati come Linus stringeva a sé la sua coperta. Una retorica fin troppo comoda, che sembra non far torto a nessuno, né agli israeliani né ai palestinesi.
Ma non riconoscere che ad oggi questa soluzione è fuori gioco, non riconoscere che l’Autorità nazionale palestinese è del tutto priva della credibilità necessaria per un processo di nation-building, significa in realtà lavarsene le mani, con l’aggravante di pretendere di dare lezioni morali a chi per lo meno compie lo sforzo di immaginare soluzioni nuove.
Possibile che di uno stato palestinese si tornerà a parlare alla conclusione del processo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, gli Accordi di Abramo, ma in termini comunque generici e in tempi non brevi (e soprattutto con un ruolo proprio dei Paesi arabi).
Il ruolo del mondo arabo
Dunque, cosa sta dicendo Trump al mondo arabo con il suo piano di “prendere il controllo di Gaza”? Innanzitutto, che Gaza va ricostruita, ma ciò che resta di Hamas va eliminato. Che i Paesi arabi devono anch’essi sforzarsi di proporre loro soluzioni ed assumersi le proprie responsabilità, non come in passato scaricare l’onere su Israele e Stati Uniti tranne poi alimentare il vittimismo palestinese a fini di consenso interno.
Quando l’Egitto a guerra in corso ha chiuso i valichi e si è rifiutato di accogliere profughi palestinesi ha violato le convenzioni internazionali. L’Egitto, non Israele – anche se i soloni del diritto internazionale, per i quali a nessuno andrebbe rifiutato l’asilo, non hanno mai obiettato nulla.
Chiaramente nel rifiuto di Egitto e Giordania ad accogliere i gazawi non c’è tanto il diritto dei palestinesi ad un loro stato, ma la preoccupazione di portarsi in casa migliaia di fanatici e terroristi in cerca di vendetta.
Dopo un anno e mezzo di guerra in cui la pressione esercitata dall’amministrazione Biden, e ovviamente dagli Stati europei, su Israele è stata di gran lunga maggiore rispetto a quella esercitata su Hamas, sui palestinesi, sul mondo arabo e sull’Iran, allentando così la deterrenza, ora la minaccia di Trump, sebbene rivestita da progetto immobiliare di lusso, è la più terribile che abbiano mai sentito – la fine della presenza palestinese a Gaza – ma presa a tal punto sul serio da meritarsi ferme condanne. Chissà che lo spavento non li induca a muoversi.
Status quo da superare
In generale, l’atteggiamento di sconcerto e indignazione delle élites europee dinanzi a Trump è dovuto all’incapacità di riconoscere e accettare che l’ordine mondiale uscito dalla Guerra Fredda non regge più e che lo status quo non è il migliore dei mondi possibili, né per gli americani né per gli europei. In Europa i cittadini lo hanno compreso benissimo, non le élites.
Questo status quo post-Guerra Fredda che potremmo, generalizzando, definire “globalizzazione alla cinese”, ha impoverito i ceti medi occidentali, generato disuguaglianze e insicurezze, deindustrializzato le nostre economie, rafforzato i regimi autoritari e totalitari, come Russia e Cina, nemici dell’ordine liberaldemocratico. Non deve sorprendere che Trump e gli americani vogliano qualcosa di diverso. Dovremmo pensarci anche noi. Perché se questo periodo, dai primi anni 2000, è coinciso con la costruzione, sebbene imperfetta, dell’Unione europea come istituzione, non è coinciso con una “età dell’oro” per i cittadini europei.
La soluzione di Trump per Gaza non vi piace? Ok, proponetene un’altra, ma dev’essere nuova e diversa da tutte quelle fallimentari già sperimentate. Chi è, dunque, il vero pazzo? Chi persevera nell’errore, o chi tenta di cambiare paradigma?