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Dirsi “preoccupati” non basta più, con la Cina serve un “approccio di sistema”

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Stessa piazza, due mondi diversi. Inizio giugno, a tre giorni di distanza, Piazza del Popolo ha visto due manifestazioni. La prima ha raccolto una cinquantina di attivisti impegnati da anni nel denunciare la repressione brutale e sanguinaria del Partito comunista cinese all’interno del suo territorio. La seconda ha riempito la stessa piazza con persone inginocchiate e a pugno alzato, a sostegno del movimento americano Black Lives Matter, dopo la morte di George Floyd e l’arresto del poliziotto responsabile.

Il confronto tra le due piazze è emblematico. Due pesi, due misure, che ci mettono di fronte ad una dura realtà, nel momento in cui il Partito comunista cinese sta rafforzando in modo sempre più crudele le sue politiche draconiane, liberticide, nella loro forma più assoluta, ma anche – e va sottolineato – letteralmente omicide. Sono realtà difficili da raccontare, in primis per la censura e le innumerevoli restrizioni di accesso alle regioni delle minoranze più colpite dalle politiche di assimilazione nella razza nazionale cinese. Se la causa del Tibet è stata per anni nobilitata e discretamente popolare grazie alla figura carismatica del Dalai Lama, altre minoranze etniche e religiose non hanno certamente potuto godere della stessa copertura mediatica o sfilata di celebrità. Ma duole rimarcare che ormai anche al popolo tibetano viene riservata la stessa sorte dei suoi fratelli e sorelle Uiguri, del Falun Gong, delle minoranze cristiane, e delle tante realtà nascoste sotto il mantello dell’oppressione comunista.

Nell’anno passato si è aperta una rara finestra di attenzione mediatica grazie alle azioni continue e coraggiose di milioni di cittadini di Hong Kong, che nonostante la crescente repressione, e conseguente paura, hanno dato un volto e una voce a quel popolo cinese che reclama libertà, democrazia, diritti, giustizia. Un’immagine inequivoca che queste aspirazioni individuali non sono limitate ad una cultura strettamente occidentale, come vuole far credere Pechino. E proprio per questo, i cittadini di Hong Kong devono pagarne il prezzo.

Il mondo che si vuole chiamare democratico ha guardato con passione e meraviglia a quelle strade e piazze piene di giovani che si appellano a quanto quello stesso mondo ha solennemente giurato di difendere e promuovere dopo lo scempio della Seconda Guerra Mondiale. Tanti si sono detti – e continuano a dirsi – “gravemente preoccupati”. Pochi, pochissimi hanno cercato di agire per fermare quel che è passato martedì: la nuova legge sulla sicurezza nazionale con applicazione extraterritoriale imposta da Pechino e la fine del principio “un Paese, due sistemi”.

Ancora più isolati i politici, giornalisti, accademici e attivisti sulle barricate per la campagna da definire ormai “genocidaria” in corso nello Xinjiang. Campi di concentramento, stato di sorveglianza di massa, banche data di Dna per la mappatura etnica, matrimoni interetnici forzati e – infine, come documentato e pubblicato all’inizio di questa settimana – le sterilizzazioni forzate delle donne uigure in età fertile.

Fine della storia? Non proprio. Un lento “risveglio”, e soprattutto di consapevolezza di sé in Occidente c’è. A partire dagli Stati Uniti – sì proprio quegli stessi che in queste settimane sono stati condannati così duramente da centinaia di migliaia di persone, condanna veicolata dai mass media lì sì liberi di documentare, commentare e criticare -, che sotto l’amministrazione Trump, e in modo unanime e bipartisan nel Congresso, hanno cominciato a tracciare una vera linea rossa. Le armi principali? Informazione, sanzioni, reciprocità.

Armi dal playbook of China “constrainment” proposto da Gerald Segal negli anni ’90 – ma ignorato fino a poco tempo fa nella speranza che l’apertura economica alla Repubblica Popolare Cinese avrebbe portato persino il PCC sulla retta via – e riportato recentemente all’attenzione da Andreas Fulda: “Si rende chiaro alla Cina che il mondo esterno ha interessi che saranno difesi mediante incentivi per il buon comportamento, la deterrenza del cattivo comportamento, e la punizione quando la deterrenza fallisce.”

Che sia un approccio che possa funzionare è evidente per due motivi. Il primo, gli attacchi sempre più aggressivi di Pechino verso gli Stati Uniti e – l’altra faccia della stessa medaglia – la speranza espressa ad alta voce dei tanti attivisti in Cina che siano proprio gli Stati Uniti a “salvarli”. Il secondo indizio lo troviamo proprio nelle stesse politiche della RPC, e in modo particolare nella nuova legge sulla sicurezza nazionale imposta a Hong Kong: tra le azioni punibili spicca la chiara avversione di Pechino per tutto quanto possa informare il mondo esterno della realtà atroce del suo regime, in particolare le richieste di sanzioni, e infine l’attacco opposto alla reciprocità richiesta degli Stati Uniti, ad esempio in termini di accesso per i giornalisti (sempre sul versante odiato dell’informazione), con la potenziale applicazione di un principio di extraterritorialità che minerebbe la libertà di espressione a difesa dei diritti – Cina inclusa – di chiunque, da ovunque.

Le azioni recenti di Pechino sono indizi fondamentali sia di un regime alle prese con una paura micidiale di perdere il potere – proprio ieri, 1° luglio, si è celebrato il 99esimo anniversario di un PCC che certamente non vuole mancare il centenario – che di quanto si possa fare per arginare quel potere e cercare di fermare l’ennesima strage irreversibile.

L’Unione europea in tutto questo – fuori il Regno Unito, che sembra finalmente tornare ad una politica più allineata a quella di Washington su questo punto -, nonostante la definizione della RPC come “rivale sistemico”, sembra rimasta agli anni ’90, quando la tesi di Segal fu accantonata. Certo, gli elogi per i buoni comportamenti non mancano, soprattutto in un momento in cui agli occhi dei leader europei sarebbe l’amministrazione Trump a minare l’ordine multilaterale, mentre la RPC si starebbe dimostrando un partner responsabile – pronto ad assumersi nientemeno che la leadership dell’ordine mondiale, a dire dell’ambasciatore cinese a Roma Li Junhua – per portare avanti i dossier fondamentali sul clima e sul commercio. Sono affermazioni che stonano a fronte della eclatante inaffidabilità di Pechino e delle sue politiche concrete, di segno opposto, ma che sono uscite dalla bocca dell’Alto rappresentante Ue Josep Borrel solo poche settimane fa. Come stonano gli appelli della cancelliera Merkel e del ministro degli esteri tedesco Heiko Maas, con la proposta di una “terza via europea” tra Cina e Stati Uniti.

Nella fase che avrebbe precisamente richiesto un netto passaggio alla deterrenza nei confronti di Pechino, quando è stata avanzata la proposta della nuova legge sulla sicurezza, l’Unione europea si è limitata a esprimere “preoccupazione”, con un raro salto di qualità quando qualcuno ha aggiunto l’aggettivo “grave”, mentre nessun indugio ad inginocchiarsi, anche all’interno delle istituzioni italiane, per condannare ancora una volta duramente e con enfasi Washington.

La scelta che l’Unione europea e i suoi singoli Stati hanno davanti oggi è chiara: svegliarsi e riprendere coscienza di ciò che sono, e soprattutto aspirano ad essere secondo i loro dettati costituzionali – anche rispetto alle illusioni sui rapporti commerciali con la RPC, che come rivela il rapporto annuale dell’Unità di informazione finanziaria (Uif) di Bankitalia sono tutt’altro che fair. Si prenda atto che la politica dell’apertura senza condizioni verso Pechino ha fallito, per evitare di dover dire “mai più” quando la strage si è ormai compiuta, istituendo l’ennesima giornata di memoria.

È necessario passare ad un whole-of-system approach. A partire dal mondo politico, in modo trasversale e transnazionale sull’esempio della neonata Alleanza Interparlamentare sulla Cina. L’auspicio è che anche in Italia si possano aggiungere altri voci a quelle coraggiose che resistono alle pressioni di censura di Pechino e che si sono riunite, il 1° luglio, nella Sala Caduti di Nassyria del Senato della Repubblica. Ma anche nel mondo delle imprese, si prenda esempio dagli avvisi dell’amministrazione Usa verso le imprese circa le catene di approvvigionamento e di produzione legate al lavoro forzato nelle regioni minoritarie in Cina

Un discorso a parte merita il settore mediatico. Il caso Floyd insegna che l’informazione può fare la differenza. È il mondo dell’informazione a muovere la società e la politica. Non a caso sono proprio i giornalisti ad essere tra i principali bersagli di Pechino. E non a caso il sito web governativo che ha fornito le prove ufficiali che documentano la campagna di repressione delle nascite e sterilizzazioni forzate nello Xinjiang è stato tolto dalla circolazione dopo la pubblicazione del rapporto. Pechino teme la libera informazione come nessun’altra arma. Perché sa che l’opinione pubblica e politica, quando informata, si mobilita.

La senatrice Emma Bonino ha detto che la battaglia sarà lunga. Un’ovvietà, che però non sia una scusa per rimanere fermi. Se non si vuole che la battaglia non ci sia proprio, il tempo dell’appeasement si deve chiudere, passando alle azioni più temute da Pechino.

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