Esteri

A Kiev passo verso il negoziato: status di candidato Ue in cambio di territori

Trionfalismo fuori luogo: la candidatura alla membership Ue non aiuta Kiev a vincere la guerra, ma la prepara alle “dolorose concessioni”

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Lascia sconcertati il trionfalismo con cui i media italiani hanno celebrato, più che riportato, il vertice di ieri a Kiev tra i leader dei principali Paesi Ue – il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il premier italiano Mario Draghi – e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

Ci sta che i leader, i politici, presentino le loro iniziative come un successo, il migliore degli esiti possibili. E in questo caso in particolare c’era da una parte e dall’altra – soprattutto da parte di Kiev – tutto il comprensibile interesse a presentare l’evento sotto la miglior luce possibile, addirittura “storico”. Ai giornalisti e agli osservatori però sarebbe richiesta una maggiore obiettività, saper distinguere tra retorica e realtà.

Un successo politico per Kiev

Zelensky incassa il minimo indispensabile: l’impegno dei tre, fino a ieri non scontato, a sostenere la candidatura dell’Ucraina alla membership Ue. E fa bene il presidente ucraino a cantare vittoria, definendolo un “risultato storico”: “lo status di candidato per l’Ucraina può rafforzare la libertà in Europa e diventare la decisione più importante del terzo decennio del XXI secolo”. Ma resta il minimo sindacale.

Dal canto loro, i tre Paesi leader dell’Ue hanno messo sul tavolo il massimo di ciò che sono disposti a (o nelle condizioni di) offrire. Ma a ben guardare non è molto. Qualcosa senz’altro di significativo, come vedremo, ma non qualcosa che aiuterà materialmente gli ucraini a vincere la guerra.

I leader Ue non hanno annunciato alcun nuovo aiuto militare o finanziario in grado di modificare i rapporti di forza sui campi di battaglia, né formalizzato quelle garanzie di sicurezza di cui in ogni caso Kiev avrà un disperato bisogno.

Ma per Zelensky l’obiettivo è ottenere dal Consiglio europeo del 22-23 giugno lo status di candidato dell’Ucraina, che con l’impegno pubblico dei tre Paesi leader dovrebbe essere a questo punto davvero a portata di mano – a meno di clamorosi imprevisti che metterebbero in forte imbarazzo Parigi, Berlino e Roma.

Non importa se il processo sarà lungo, è però per Kiev un indiscutibile successo politico. La prospettiva di adesione all’Ue riafferma la sua indipendenza e sovranità, messa in discussione dall’aggressione russa e dalle parole di Putin, sebbene molto probabilmente dovrà sacrificare la propria integrità territoriale.

Messaggio chiaro a Putin

Inoltre, sostenendo la candidatura dell’Ucraina, Macron, Scholz e Draghi recapitano un messaggio molto preciso a Vladimir Putin: potrà anche riuscire a strappare qualche territorio, ma la sfera di influenza sovietica è morta e non sarà resuscitata con la forza. Ma anche questo assunto dovrà misurarsi con l’esito del conflitto sul campo.

Il più esplicito, ribadendo una posizione già espressa in precedenza, è stato il premier italiano: “L’Italia vuole l’Ucraina nell’Ue, vuole che abbia lo status di candidato e sosterrà questa posizione nel prossimo Consiglio europeo. Zelensky sa che è una strada da percorrere, non un solo passo”.

La novità è che questa volta è la posizione comune dei tre grandi Paesi. “Tutti e quattro i nostri Paesi (al vertice era presente anche il presidente rumeno, ndr) sosterranno lo status di candidato dell’Ucraina. Nei prossimi giorni costruiremo l’unanimità dei 27″, ha annunciato il presidente Macron.

“Abbiamo confermato a Zelensky che già domani la Commissione deciderà il quadro e il prossimo Consiglio europeo prenderà delle decisioni”. Macron pare dunque aver abbandonato la sua idea di una “Comunità politica europea” allargata, diversa dalla membership, che qui in Italia ci pare abbia ripreso solo il segretario del partito francese, Enrico Letta.

Un indubbio risultato delle pressioni americane, caldeggiate e accompagnate in Europa da Draghi “l’amerikano”, cui va dato il giusto merito.

Un passo verso il negoziato

Comprensibili le dichiarazioni bellicose che hanno accompagnato il vertice (con le armi Usa ci andremo a riprendere la Crimea), ma più che un passo verso la vittoria militare, lo status di Paese candidato alla membership Ue si può forse considerare come un passo di avvicinamento al negoziato, prefigurando la formula “Ucraina non nella Nato, sì nell’Ue”. Senza nemmeno la prospettiva europea, infatti, Kiev sarebbe del tutto abbandonata nelle braccia di Mosca. Non sarebbe un negoziato, ma una resa.

Nel momento in cui, ad un certo punto, come ha detto Macron alla vigilia del vertice, “il presidente ucraino e i suoi uomini dovranno negoziare con la Russia“, l’Ucraina sarà ufficialmente uno stato candidato all’ingresso nell’Unione europea.

Lo scambio

Che si possa o meno parlare di uno scambio, sarebbe ingenuo non vedere come l’adesione all’Ue rappresenti per il presidente Zelensky anche una prospettiva politica a cui aggrapparsi per far digerire le “dolorose concessioni” territoriali che sembrano inevitabili, invocate da più parti, non solo in Europa, per chiudere un conflitto di cui si avverte in Occidente una sempre maggiore stanchezza, come spiega bene nel suo articolo di oggi Stefano Magni.

Certo, ieri i tre leader si sono guardati bene dal forzare la mano, hanno evitato in ogni modo di dare l’impressione di imporre a Kiev una qualsivoglia pace. E ci sono riusciti bene: “Vogliamo la pace ma l’Ucraina deve difendersi ed è l’Ucraina a dover scegliere la pace che vuole, quella che ritiene accettabile per il suo popolo. Solo così può essere una pace duratura”, ha detto Draghi. Di un cessate-il-fuoco non si sarebbe nemmeno parlato: “No. Non ne abbiamo parlato. Abbiamo detto che sono gli ucraini che devono decidere”.

“Le modalità della pace non saranno decise che dall’Ucraina e i loro rappresentanti. Francia e Germania non negozieranno mai con la Russia alle spalle dell’Ucraina“, ha assicurato il presidente francese Macron, aggiungendo che nel parlare con Mosca “noi portiamo le nostre esigenze come forze europee, ma mai per negoziare al posto suo”.

C’è un fondo di verità, ma anche un velo di giustificata ipocrisia: è evidente infatti che qualsiasi soluzione diplomatica non possa prescindere dalla volontà degli ucraini, ma è altrettanto evidente che se l’Ue offre lo status di candidato, aiuti militari (sebbene limitati), soldi per la ricostruzione, ha anche gli strumenti per convincere Kiev a cedere qualcosa.

Lo stesso vale, a maggior ragione, per Washington. “Non faremo pressioni per concessioni territoriali” alla Russia, ha ribadito anche ieri la Casa Bianca (“come invece fanno alcuni europei”, ha aggiunto un funzionario).

Ma è anche vero che, com’è naturale, gli Stati Uniti abbiano discusso e discutano con Kiev la possibilità di una “soluzione negoziale” con Mosca, come ha rivelato il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan. Solo che “di proposito ci siamo astenuti dall’esporre ciò che vediamo come un esito” del conflitto, ha spiegato. Il che è anche perfettamente logico.

D’altra parte, se l’obiettivo di guerra di respingere i russi oltre le posizioni pre-invasione del 24 febbraio sarebbe legittimo, non ci sembra che l’aiuto militare occidentale sia adeguato allo scopo, né per consistenza né per tempistica.

Ed allora è questo lo scambio che probabilmente ha preso forma ieri a Kiev: da parte dell’Ue lo status di candidato, il sostegno finanziario e militare finché sarà necessario per rafforzare la posizione dell’Ucraina, ma da parte di Zelensky la disponibilità, quando sarà il momento, a fare concessioni territoriali. Disponibilità che ovviamente non può in alcun modo essere espressa pubblicamente oggi, a guerra in corso.

Da qui la necessità di una narrazione esattamente contraria: l’accento sulle nuove armi Usa (con le quali “libereremo tutti i nostri territori, tutti, compresa la Crimea”, ha detto il ministro della difesa ucraino alla Cnn) e sulla perdita di 1.000 soldati al giorno in Donbass (di cui tra i 200 e i 500 morti).

La candidatura non basta

Ma qui si aprono altre incognite. Uno degli errori su cui rischia di basarsi l’approccio che sembra stia prevalendo sia in Europa che a Washington è che Putin si accontenterebbe del Donbass. Anche se si fermasse una volta preso il Donbass, la sua potrebbe essere una pausa tecnica, come è stata quella del 2014 con gli accordi di Minsk.

Per questo, se Kiev dovrà cedere territori, non sarà la candidatura ad una membership Ue che potrebbe arrivare dopo un decennio a prevenire una futura aggressione russa, ma adeguate e credibili garanzie militari – un intervento diretto, per intenderci – da parte delle potenze occidentali.

Dunque, sarebbe inaccettabile un qualsivoglia armistizio che congelasse di fatto i nuovi confini senza nuove e rafforzate garanzie di sicurezza. Sarebbe una riedizione degli accordi di Minsk, cioè la premessa di una nuova guerra.

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