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Dove sbaglia la sinistra: riconoscere i limiti dell'”apertura” per salvaguardare le democrazie liberali

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Naturalmente legittimo, e forse anche opportuno che il Pd resti all’opposizione, rifiuti di sostenere, sia pure con una “non sfiducia”, un eventuale governo di centrodestra o del Movimento 5 Stelle. Quello che è comprensibile dal punto di vista umorale, ma molto meno da quello politico, è invece evocare una sorta di dovere in capo a Lega e M5S, i cosiddetti “populisti”, a mettersi insieme per dare un governo al Paese. Sono usciti vincitori dalle urne, vero, ma senza conquistare una maggioranza parlamentare e con proposte di governo molto diverse, anche se agli occhi del Pd accomunati dal loro “populismo”. Una provocazione, “adesso fateci vedere di cosa siete capaci”, che può valere come sfogo dei primi giorni, ma che fa temere che alla base ci sia una mancata comprensione di quanto accaduto.

Si basa infatti su un’analisi politica che si sente ripetere in questi giorni dagli esponenti del Pd renziano e dalla stampa amica, come il direttore del Foglio Claudio Cerasa: la nuova grande divisione del mondo sarebbe tra “apertura” e “chiusura”. Da una parte, i saggi illuminati, dall’altra i rozzi oscurantisti. Somiglia molto all’eterna ed epica battaglia tra “forze del bene” e “forze del male”. Di nuovo, la presunzione di una sorta di superiorità quasi antropologica. Grattando via l’allarmismo in superficie, rischia di restare una lettura molto comoda e rassicurante, e riduttiva nella migliore delle ipotesi.

A ben vedere quello che è uscito dalle urne è un principio di nuovo bipolarismo destra/sinistra, sia pure post-ideologico, rispetto al quale il Pd si trova in mezzo, fortemente ridimensionato e a rischio di venire assorbito da uno dei due nuovi poli. Se la legge elettorale lo avesse permesso, se cioè il suo effetto maggioritario non fosse stato annacquato da un forte riequilibrio in senso proporzionale (oltre un terzo dei seggi), il risultato sarebbe stato più netto e probabilmente uno dei due nuovi poli molto più vicino alla maggioranza dei seggi. Basti pensare che alla Camera il centrodestra con il 37 per cento dei voti ha conquistato il 48 per cento dei seggi nei collegi uninominali, un effetto maggioritario mitigato però sulla totalità dei seggi: il 42 per cento. Sorte simile il M5S: con il 32,7 per cento dei voti il 39 per cento dei seggi all’uninominale, ma solo il 36 della totalità dei seggi. Viceversa, la coalizione guidata dal Pd con il 23 per cento dei voti ha conquistato solo l’11 per cento dei seggi all’uninominale, ma quasi il 18 comprendendo anche i seggi della quota proporzionale.

Pur essendoci punti di contatto – deficit spending e una certa dose della cosiddetta anti-politica – tra Lega e M5S la differenza è ancora profonda, a cominciare dalla visione di politica economica e del ruolo dello Stato. Assistenzialista e redistributiva quella del M5S, per cui la priorità è il reddito di cittadinanza: lo Stato deve garantire il posto di lavoro e, quando non ci riesce, un adeguato livello di reddito; più attenta al ruolo dell’impresa e dei privati quella del centrodestra, la cui principale proposta è la flat tax: abbassare le tasse “per chi crea e offre lavoro”.

Qual è allora il difetto alla base della lettura apertura vs chiusura?

Fondamentalmente il Pd, la sinistra italiana, come le forze progressiste, liberal, e le loro élites culturali in tutti i paesi occidentali, non si capacita di come sia possibile non solo che molti cittadini abbiano votato diversamente dalle sue aspettative, ma che molte persone respingano in toto il mondo “buono” immaginato e impacchettato per esse. Globalizzazione, un mondo senza confini, che garantisce una mobilità pressocché illimitata, che tende alla riduzione delle disuguaglianze e alla redistribuzione delle risorse – ma su base planetaria. Nuovi diritti, sociali e civili, istruzione e sanità gratuite per tutti. Relativismo culturale, siamo tutti uguali, minoranze iper-tutelate, trionfo del politicamente corretto, per cui ogni termine offensivo e concetto deviante è bandito. Cosa può esserci di meglio e di più “progressista”?

Tuttavia, tutte queste “conquiste”, il “progresso” materiale e tecnologico della nostra epoca, non sembrano essere sufficienti a garantire alla sinistra la legittimazione politica cui è convinta di avere diritto. La sinistra si è autoproclamata (al massimo, ove necessario, in coalizione con i partiti della famiglia democristiana) interprete unica del bene collettivo, guardiana delle democrazie liberali dinanzi alle minacce crescenti di estremisti e populisti, ma gran parte dell’elettorato si ostina a non vederla come tale.

Brexit, Trump, ma anche tutte le tornate elettorali in Europa continentale – le elezioni del 4 marzo in Italia ultima in ordine di tempo – suggeriscono che sia ancora in corso la rivolta popolare contro le élites europeiste e globaliste, più attente cioè a perseguire un’agenda politica transnazionale che a rendere conto ai propri cittadini. In Germania, in Italia e altrove, i partiti socialdemocratici sono stati fortemente ridimensionati, se non quasi azzerati come in Francia. No: Brexit e Trump non sono incidenti di percorso, parentesi della storia, né fenomeni circoscrivibili ai sistemi politici anglosassoni.

Tanto per cominciare, il commercio internazionale non corrisponde all’ideale di libero mercato come ci viene raccontato. Non per le “aggressioni” di Donald Trump a colpi di dazi, ma per gli squilibri e le distorsioni causate dalle politiche mercantiliste della Cina e dell’Europa a guida franco-tedesca.

Abbiamo creduto che l’ingresso di Pechino nel WTO, frettolosamente concesso nel 2001, oltre a spingere la crescita globale avrebbe portato ad una liberalizzazione economica e politica della Cina, di pari passo con il diffondersi della prosperità e la nascita di una classe media. Non è accaduto, non sta accadendo. Il mercato cinese è sempre più chiuso, l’intervento statale sempre più accentuato e distorsivo, le pratiche commerciali scorrette sistemiche e il sistema politico ancora bloccato (tanto che Xi Jinping punta alla presidenza “a vita”).

Anche le cosiddette “primavere arabe” sono state frettolosamente salutate come rivoluzioni liberali contro i regimi corrotti e autoritari della regione, e così sostenute dai governi occidentali. Peccato che di liberale c’era ben poco, e ad approfittarne siano stati movimenti islamici e formazioni jihadiste. Ora, guarda caso, in uno dei paesi-guida del mondo musulmano, ma anche uno dei più retrivi, l’Arabia Saudita, le speranze di modernizzazione e liberalizzazione sono legate agli ambiziosi piani del principe ereditario Muhammad bin Salman. Sconcerto della sinistra e dei liberal: non è la rivoluzione “dal basso” che si aspettavano. Ma i giovani sauditi, la maggioranza della popolazione, sono con lui e nel paese si respira un clima di ottimismo e speranza.

Nel frattempo, qui in Occidente, nelle nostre democrazie liberali, e in Italia soprattutto, hanno perseverato in politiche che tendono a sfumare, quasi ad abolire, la distinzione tra immigrazione legale e illegale (negli Stati Uniti le chiamano “sanctuary cities”) e il concetto di cittadinanza. Politiche giustificate dalla visione liberal di un mondo senza confini, che però viene respinta da gran parte dei nostri cittadini.

Il problema della sinistra, che sembra in preda ad un revival di vero e proprio internazionalismo, è aver perso di vista almeno due fatti: che culture e civiltà non sono tutte uguali, ma veramente diverse, in alcuni casi anche radicalmente, quindi non omologabili, non integrabili, e spesso incompatibili. E che tra democrazia liberale e comunità nazionale c’è un legame inestricabile: se viene meno il senso della seconda, diventa sempre più difficile far funzionare la prima… La democrazia esige che esista una constituency ben definita e riconoscibile alla quale eletti e governi debbano rispondere.

Gi eventi politici degli ultimi due anni ci ricordano che nonostante un mondo sempre più interconnesso, anche nelle democrazie liberali occidentali, cioè nei sistemi politici più aperti e flessibili, il senso di comunità non ha perso di significato. La democrazia liberale è un sistema politico aperto, che attraverso la competizione e la legittimazione reciproca permette la convivenza pacifica di idee, valori e interessi diversi. E’ però necessario un minimo denominatore di valori e interessi a fondamento di una comunità politica. C’è un limite al tasso di diversità, di caos, di frammentazione, oltre il quale il sistema democratico rischia di entrare in crisi ed implodere. Il concetto di cittadinanza è ancora essenziale per il suo corretto funzionamento. E i cittadini comuni sembrano esserne consapevoli ben più delle loro élites. Flussi migratori indiscriminati vengono percepiti come una minaccia alla coesione sociale e valoriale.

Come ha osservato il filosofo liberale francese Pierre Manent in un’intervista a Sohrab Ahmari, “l’umanità intera” è un concetto “troppo generico e variegato” per fornire un senso di comunità.

La sinistra liberal è disorientata perché credeva che concetti come natura umana, comunità, nazione, tradizione fossero superati, ormai espulsi dalla contemporaneità: ma come, non ce ne eravamo liberati anni fa? E infatti le forze politiche che vi si richiamano vengono considerate – erroneamente – abusive. Con l’etichetta di “estremisti” e “populisti” si tende a rimuovere ogni loro legittimazione nell’agone democratico.

Ma urlare contro i cittadini ingrati e ignoranti non servirà a nulla. Per salvaguardare gli enormi vantaggi e le grandi conquiste di società libere e aperte è necessario anche riconoscerne i limiti. Rischiamo di perderle, se l'”apertura” si spinge fino al punto in cui non esistono più confini, quindi non esiste più una comunità politica nazionale, e si perde il senso stesso di cittadinanza. Riconoscere tale limite è il primo passo per fermare l’ascesa di estremismi davvero pericolosi e preservare le nostre democrazie liberali.

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