Esteri

Il fronte interno: dalle piazze alle istituzioni, ecco l’Occidente filo-islamista

Hamas adottato dalla sinistra woke e dalle università delle élite. Sdoganato lo slogan “Dal Fiume al Mare”, l’idea che Israele debba cessare di esistere

manifestazione Palestina

Siamo abituati a vedere bandiere palestinesi in piazza ogni volta che lo scontro tra Israele e i suoi vicini arabi si riaccende, ma questa volta è diverso. Questa volta si è scesi in piazza, non quando, come di solito succede, Israele ha iniziato la ritorsione post-attacco su Gaza, ma mentre Israele era ancora sotto attacco e i suoi soldati stavano ancora combattendo i terroristi infiltrati nei villaggi assaliti.

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Le piazze antisemite

Quando si è venuto a sapere che la maggior parte delle vittime dell’attacco di Hamas erano civili, quando si è saputo degli stupri, delle torture, dei rapimenti, non solo i festeggiamenti non si sono fermati, ma sembrano essere aumentati.

Migliaia di persone hanno marciato in tutta Europa, in 100 mila solo a Londra, non solo con la bandiera della Palestina, ma anche con bandiere di Hamas, di Hezbollah, dei Talebani, di al Qaeda, e dell’ISIS.

Lo slogan che viene scandito in queste marce è “From the River to the Sea, Palestina Shall be Free!” “Dal Fiume (Giordano) al Mare (Mediterraneo), la Palestina sarà libera”. Nessuno qui sta chiedendo la “soluzione a due Stati”. Scrive Douglas Murray dalle pagine del Telegraph:

Una cosa che l’Occidente ora sa con assoluta certezza è di contenere un gran numero di persone, molti dei quali abbiamo importato come immigrati, che non sono soltanto istintivamente anti-Israele, ma apertamente antisemiti.

Ma non si tratta solo degli immigrati. A Berlino, racconta Der Spiegel, i gruppi pro-Palestina come Samidoun stanno creando alleanze sia con l’estrema sinistra che con l’estrema destra.

Samidoun riceve supporto dagli ambienti di sinistra, inclusi elementi di Antifa, ma anche da estremisti di destra. Il gruppo III Weg (Terza Via), che aderisce ad una ideologia neo-nazista, ha espresso oltraggio in aprile quando la polizia ha messo al bando una dimostrazione di Samidoun, scrivendo in una dichiarazione che anche loro rigettano “l’imperialismo sionista”. […] Non raccomanderei a nessuno di rendere nota al propria fede ebraica a Neukölln. Coloro che portano la kippah già fronteggiano la possibilità di venire insultati e sputati in tempi tranquilli. Come segno di solidarietà, abbiamo innalzato la bandiera israeliana di fronte al municipio di Neukölln, e l’abbiamo dovuto fare sotto protezione della polizia, giusto per essere tranquilli.

La sinistra woke

Numerose altre organizzazioni politiche del mondo occidentale hanno partecipato ai festeggiamenti per la vittoria di Hamas. A Chicago Black Lives Matter ha postato la figura di uno dei parapendii con i quali i carnefici di Hamas si sono infiltrati in Israele, con la scritta: “Io sto con la Palestina”.

Fig 5 BLM

Hamas sembra essere stato adottato dalla sinistra woke nell’ottica della dinamica oppresso/oppressore che caratterizza tale ideologia. La parola chiave questa volta è “decolonizzazione”, usata comunemente nelle fila woke, che unisce terzomondismo e cosiddetta giustizia sociale, e che implica la necessità di smantellare e rifondare tutte le istituzioni occidentali. Una teoria originariamente delineata da Frantz Fanon.

Fig 6 woke

E come twittato dalla scrittrice ed editorialista del Washington Post Najma Sharif all’indomani degli eccidi in Israele: cosa pensavate che significasse decolonizzazione?

Fig 6a post Sharif

Forse la più turpe delle manifestazioni anti-Israele è la campagna, sembra spontanea, per stracciare i volantini con le foto degli ostaggi in mano ad Hamas, molti dei quali bambini, che organizzazioni ebraiche stanno affiggendo in giro per il mondo. Per arrivare a rimuovere la foto di un ostaggio, non basta la semplice dissidenza politica, ci vuole un vero e proprio fanatismo, una incrollabile fede nella giustezza della propria causa che riesce a reprimere anche il più basilare istinto di pietà.

Fig 7 volantini

È importante capire che non si tratta di un fenomomeno riservato a organizzazioni fringe. Organizzazioni come Black Lives Matter fanno parte dell’infrastruttura del Partito Democratico americano, e ricevono finanziamenti per milioni di dollari da parte di benefattori miliardari.

Le università delle élite

Le università della Ivy League, che formano le élite del futuro negli Stati Uniti, sono state teatro di episodi la cui natura è inconfutabile. Mentre i massacri erano ancora in corso, diverse organizzazioni studentesche dell’Università di Harvard hanno rilasciato un comunicato in cui incolpano esclusivamente Israele.

Un insegnante della Columbia University ha definito l’attacco di Hamas “awesome!” (fantastico!). A Stanford, un’insegnante ha separato gli alunni ebrei da tutti gli altri in classe in quanto “colonizzatori”. Sul muro della biblioteca della George Washington University, sono state proiettate scritte inneggianti ai “martiri” di Hamas e appelli alla fine di Israele. Una professoressa della UCDavis ha minacciato online i “giornalisti sionisti che diffondono propaganda e disinformazione.”

Fig 8 post UCDavis

Al Cooper Union College di New York una folla di manifestanti pro-Hamas ha messo sotto assedio la biblioteca, costringendo gli studenti ebrei ad andare a nascondersi. Questi sono solo alcuni esempi, e tutti quanti sono avvenuti nella quasi completa indifferenza delle autorità scolastiche.

E sempre più si passa dall’”antisionismo” all’antisemitismo senza vergogna. Un festival cinematografico del club lesbo della Columbia University ha espressamente vietato l’ingresso agli “ebrei bianchi che sono oggi e sono sempre stati gli oppressori di tutte le genti di colore”.

Fig 9 post Columbia

I social media

Né le cose vanno meglio nella contro-cultura. I social media straboccano di simpatie per Hamas e la Palestina, giustificazionismi, relativizzazioni, e aperte celebrazioni della violenza.

Hasan Piker, conduttore di uno dei maggiori podcast di Twitch, due milioni e mezzo di followers, si è rifiutato di condannare l’uccisione da parte di Hamas di bambini Israeliani, definendoli “settler babies” (bambini-coloni). Andrew Tate, importante influencer della “manosphere”, più di otto milioni di followers su X, ha attaccato Israele pochi giorni dopo il massacro al grido di “Allah Akbar”.

Fig 10 post Tate

E naturalmente l’antisemitismo si sta espandendo dalle organizzazioni politiche, college, e social media al largo pubblico. Come in questo caso dell’idraulico del New Jersey che adesso ritira l’offerta dei suoi servizi agli ebrei.

Fig 11 post Ngo

Generazione di giustificazionisti

D’altra parte, la comprensione degli eventi e della storia è a dir poco minima. Secondo un recente sondaggio, due terzi dei giovani americani crede che l’Olocausto sia una invenzione o un’esagerazione. E uno su dieci crede che sia stato provocato dagli ebrei.

Un Harris Poll commissionato dall’Università di Harvard ha trovato che, per quanto una chiara maggioranza di americani condanni l’attacco di Hamas, la condanna scompare quanto più i rispondenti sono giovani. Nella fascia d’età 18-24, il 51 per cento trova le azioni di Hamas giustificate, pur ritenendole “genocide”. Malgrado tutti i nostri sforzi, abbiamo allevato una generazione di giustificazionisti del genocidio.

Fig 12 sondaggio

Non solo i sentimenti anti-israeliani sono perciò forti e liberi in Occidente, ma seguono le leadership del modo arabo e musulmano, adottandone tutti gli argomenti e gli slogan. Anche quando diventano sempre più antisemiti, oltre che anti-Israele.

“Stenografi dei terroristi”

C’è poi il problema dei media, il cui filo-palestinismo sta toccando vette stratosferiche. La BBC, un servizio pubblico, si rifiuta di chiamare i membri di Hamas “terroristi”.

E lo spettacolo visto in occasione del bombardamento dell’ospedale al-Ahli di Gaza, che oggi sappiamo essere stato colpito da un razzo della Jihad Islamica, con tutti i media che si sono precipitati a prendere per buona la versione di Hamas secondo cui era stato Israele e c’erano 500 morti. E con il New York Times che pubblica la foto di un edificio a caso completamente distrutto, mentre dell’ospedale è stato colpito solo il parcheggio e i danni sono stati minimi.

In un emozionale intervento a Fox News la giornalista di Newsweek e Compactmag Batya Ungar-Sargon ha definito la stampa americana “stenografi dei terroristi”, aggiungendo che:

“Per loro [giornalisti] Israele è l’oppressore, e hanno passato dieci giorni a descrivere atrocità contro gli ebrei, volevano disperatamente rimettere Israele nella posizione dell’oppressore. Del cattivo”.

La deputata del Partito Democratico Rashida Tlaib che il giorno dopo i fatti dell’ospedale al-Ahli, quando gli avvenimenti erano già noti, ha guidato un’invasione di manifestanti nel Campidoglio interrompendo l’elezione del nuovo Speaker della Camera, ancora oggi rifiuta di ammettere che l’ospedale di Gaza non è stato colpito dagli israeliani.

Infiltrazione iraniana

Il che ci porta alla parte finale: non si tratta nemmeno più solo dell’opinione pubblica e di istituzioni quali le università e i media, ma anche del governo. Abbiamo parlato nel primo articolo della Dottrina Obama e di come l’amministrazione Biden si sia operata a completarla. Quello che non abbiamo ancora visto è quali strutture, all’interno del governo federale, abbiano contribuito a farne una realtà.

Un buon punto di inizio è un uomo di nome Robert Malley. Un ex compagno di Harvard e membro della campagna elettorale di Barack Obama, ne venne allontanato quando venne fuori che aveva contatti con Hamas. Venne poi riportato nella amministrazione nel 2015, come consulente sul Medio Oriente. Malley è noto per minimizzare le caratteristiche terroristiche dell’organizzazione Hamas, da lui definita “incompresa”. Ed è anche un amico intimo, sin dal liceo, del segretario di Stato Anthony Blinken.

Dopo la pausa dell’amministrazione Trump, Biden fece di Malley da subito il suo inviato speciale per l’Iran. Ora è stato sospeso dal Dipartimento di Stato e messo sotto inchiesta, sospettato di “gestione impropria di materiale coperto da segreto.”

Secondo un’inchiesta di Jay Solomon, Malley sarebbe al centro di una vera e propria operazione di influenza iraniana all’interno del governo federale americano. Della rete di influenza fa parte Ariane Tabatabai, cittadina americana cresciuta in Iran e figlia di Javad Tabatabai, un pensatore politico iraniano, il cui pensiero politico può essere riassunto come incoraggiare gli Stati Uniti a rompere le alleanze con Israele e i Paesi arabi del Golfo e allearsi con l’Iran.

Ariane ricopre a tutt’oggi un ruolo di massima responsabilità all’interno del Pentagono. Prima ancora lavorava per la Nato, e ancora prima faceva parte di una organizzazione iraniana di diplomazia segreta dedita a convincere l’Occidente che il programma nucleare iraniano fosse a scopi pacifici.

Secondo email e messaggi di testo ottenuti dalla organizzazione dissidente iraniana Iran International, a quei tempi Ariane Tabatabai scambiava regolarmente opinioni e consigli con le più alte sfere del regime iraniano. L’amministrazione Biden a tutt’oggi rifiuta di revocarle le autorizzazioni ad accedere a materiale classificato come segreto.

C’è solo da chiedersi quanto in profondità scorra questa infiltrazione iraniana nell’amministrazione Biden. Se tale possiamo chiamarla, dato che tutti sapevano come la pensava Malley e che frequentazioni avesse.

Agenti del Qatar

Ma anche il Qatar non sembra essere assente dalla scena. Yousra Fazili, che ricopre un’altra posizione importante al Pentagono, ha in passato lavorato come “consulente strategico” per l’ambasciatore del Qatar. Un suo cugino è stato arrestato in India come finanziatore di un gruppo terrorista del Kashmir.

Hady Amr, aiuto segretario di Stato per Israele-Palestina, è ben noto per le sue dichiarazione anti-Israele e pro-Intifada, e ha in passato lavorato per la solita Brookings Institution, agenti di influenza del Qatar a Washington. Una delle sue raccomandazioni principali è che l’Occidente si avvicini alla Fratellanza Musulmana in tutto il mondo.

E infine c’è Nejwa Ali, appena sospesa dal Department of Homeland Security, dove ricopriva il ruolo di revisore delle domande di asilo, per il tweet di cui sotto.

Fig 13 Nejwa

Ali è un ex portavoce dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ed ha una lunga storia di dichiarazioni anti-israeliane tra le più estreme.

Come farà l’amministrazione Biden a tenere in piedi una politica pro-Israele in questo frangente, ammesso e non concesso che quella sia la sua intenzione, con questa galassia di spie iraniane e agenti di influenza del Qatar nei suoi più alti ranghi, resta un mistero. Spero si avverta l’ironia.

Il riflesso dell’occidentale

In conclusione, quelli tra di noi con un po’ di anni sulle spalle sanno come funziona. L’abbiamo già visto: ogni volta che i palestinesi deludono la propria audience occidentale, o rifiutando la pace, oppure commettendo qualche efferato atto di terrorismo, scatta nell’occidentale una condizione di rifiuto e negazione, che lo porta a prendersela con Israele.

Il rifiuto di Arafat della proposta di pace di Camp David nel 2000, il lancio della Seconda Intifada, e l’inizio del terrorismo suicida sdoganarono concetti ed espressioni come “nazione di apartheid” e i paragoni tra Israele e Germania nazista. Che in precedenza erano considerati assurdi, o al minimo di cattivo gusto, anche tra i più grandi sostenitori della Palestina.

Gli eccidi del 7 ottobre stanno sdoganando “Dal Fiume al Mare”, e l’idea che Israele debba cessare di esistere.

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