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Regime Change di Bezos: ora il Washington Post sostiene la libertà

Libertà personali e libero mercato da difendere. Bezos rompe con una tradizione di grandi imprenditori (tipo Buffet e Soros) che finanziano contestatori e distruttori del sistema capitalista

Bezos © dra_schwartz tramite Canva.com

Vi scrivo per informarvi di un cambiamento in arrivo nelle nostre pagine di opinione. Scriveremo ogni giorno a sostegno e in difesa di due pilastri: le libertà personali e il libero mercato. Tratteremo anche altri argomenti, naturalmente, ma i punti di vista opposti a questi pilastri saranno lasciati alla pubblicazione di altri.

Chi lo ha detto? Javier Milei, in Argentina? No, fuochino. Lo aveva scritto Ayn Rand ai redattori della sua newsletter, negli anni Sessanta? No, acqua. Non indovinereste mai. Lo ha scritto Jeff Bezos. Proprio lo stesso padre di Amazon che censurava, fino all’altro ieri, i libri conservatori e che si adattava alle peggiori politiche DEI, proprio lui ha scritto questa lettera al personale del Washington Post e l’ha condivisa su X.

Cosa è successo? Lasciamo ai dietrologi l’ardua sentenza, ma godiamoci il risultato: avremo un giornale liberal in meno e un nuovo quotidiano liberale (con la “e” finale) in più, se la stella polare sarà quella della libertà individuale e di mercato.

Già Bezos ci aveva stupito nella campagna elettorale del 2024, quando aveva deciso di non dare alcun endorsement alla candidata democratica Kamala Harris, quando il sostegno ai presidenti Dem, per quel quotidiano, era diventata una tradizione sin dai tempi delle elezioni vinte da Carter nel 1976. Allora aveva parlato di ripristino di una tradizione perduta, perché prima degli anni Settanta il quotidiano della capitale, già centenario, non aveva mai sostenuto un candidato.

Gli scoop degli anni ’70

Negli anni Settanta il Washington Post era diventato celebre per i due scoop che avevano fatto la storia del giornalismo politico americano (di sinistra): prima i Pentagon Papers e poi il Watergate. Il primo, nel 1971, minò lo sforzo bellico americano nel Vietnam, una Wikileaks prima di Internet in cui vennero pubblicate tutte le valutazioni segrete dei vertici decisionali della Difesa, in cui esprimevano dubbi sulla possibilità di vincere.

Il secondo scoop, il più famoso di tutti, portò alle dimissioni di Nixon, rivelando la sua attività di spionaggio politico ai danni dei Democratici. Fu un mito giornalistico di tale portata universale che ogni scandalo, ancora oggi, viene battezzato con un nomignolo che finisce per “gate”, in onore al palazzo Watergate in cui si svolgeva la Democratic National Convention, quella spiata da Nixon.

Gli anni di Obama

Ancora negli anni di Obama, il Washington Post era diventata la buca delle lettere dell’amministrazione democratica. Ogni decisione del presidente veniva puntualmente anticipata nelle sue colonne.

Il legame fra i Dem e il Washington Post non è stato mai messo in discussione dal nuovo editore, nonché patron di Amazon, Jeff Bezos. Era il 2013, in piena era Obama. Rimase democratico anche durante la prima amministrazione di Donald Trump, implacabile nella condanna di ogni azione del presidente repubblicano, il primo a ospitare anche intellettuali repubblicani dissidenti e never-Trump come Robert Kagan, quello che, prima della vittoria di Trump nel 2024 invitava a prepararsi alla resistenza.

Libertà personale e libero mercato

Ora le cose sono davvero cambiate, più che una vittoria repubblicana, negli Usa sembra che ci sia un regime change. E quindi cambiano anche i contenuti. Per un imprenditore è anche razionale: le idee di sinistra non sono più rappresentative della maggioranza degli elettori e fanno perdere copie. Perché insistere? Quindi Bezos scrive ai suoi:

Sono americano e lo sono con orgoglio. Il nostro Paese non è diventato quello che è per essere tipico. E gran parte del successo dell’America è stato la libertà in ambito economico e in ogni altro ambito. La libertà è etica, riduce al minimo la coercizione, e pratica, stimola la creatività, l’invenzione e la prosperità.

Parole che non si sentivano da un pezzo, nemmeno in bocca ai grandi imprenditori.

Sono convinto che il libero mercato e le libertà personali siano la cosa giusta per l’America. Credo anche che questi punti di vista siano poco rappresentati nell’attuale mercato delle idee e delle opinioni giornalistiche. Sono entusiasta all’idea di colmare insieme questa lacuna.

Imprenditori contro il sistema capitalista

Non è affatto scontato che un imprenditore parli così apertamente bene del sistema politico ed economico che gli ha consentito di fare soldi e di avere successo. Finora è successo il contrario. Basti vedere, solo per fare un esempio, cosa scrivono e che tipo di attività finanziano altri miliardari come Warren Buffett (il miliardario che vuole pagare più tasse) e George Soros (l’altro miliardario che finanzia solo radicali e anticapitalisti), giusto per dire i due più celebri.

Il senso di colpa, sinora, è stato il principale motore della filantropia. Sono ricco, la mia morale dice che essere ricchi è sinonimo di avidità, devo discolparmi, quindi aiuto non solo i poveri, ma anche gli intellettuali e i media che condannano il sistema capitalista che mi ha reso ricco.

Una dinamica che era già ben nota nella prima metà del Novecento, puntualmente denunciata nei romanzi della filosofa (e dissidente russa) Ayn Rand, “La Fonte Meravigliosa” (1943) e “La Rivolta di Atlante” (1957). Ben riassunta nel suo ultimo celebre articolo, “La sanzione della vittima” (1981), questa mentalità di auto-colpevolizzazione fa sì che “alcune delle peggiori opere di propaganda anti-capitalista e anti-imprenditoria, sono finanziate da imprenditori”. La Rand li condannava, avvertendoli che: “finanziare i propri distruttori è un crimine morale”.

Ecco, al di là delle dietrologie varie ed eventuali, possiamo solo constatare che Bezos, indubbiamente approfittando del vento del cambiamento, ha smesso di finanziare i suoi distruttori.