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Merkel, Macron e May hanno qualche ragione sui dazi, ma torto sull’Iran Deal

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Merkel, Macron e Theresa May hanno, pochi giorni fa, preso almeno due posizioni, parlando come una persona sola. Si è trattato sostanzialmente di due no, pur aperti a qualche compromesso ancora del tutto possibile, rivolti a Donald Trump. No ai dazi americani su acciaio e alluminio che rischiano di essere applicati anche all’Unione europea e no alla probabile uscita degli Stati Uniti dagli accordi del 2015 sul nucleare iraniano, promossi da Barack Obama e sottoscritti dal resto dell’Occidente.

Sorprende un po’ vedere la premier britannica Theresa May così allineata al cosiddetto asse franco-tedesco, ma probabilmente non è il caso di turbarsi più di tanto. Anzitutto le speciali relazioni fra Germania e Francia sembrano essere cambiate, almeno in parte, rispetto ai tempi di Hollande, il quale non muoveva foglia senza chiedere prima il permesso a Berlino. Macron si sta rivelando più autonomo ed intraprendente del predecessore e in alcune occasioni segue Angela Merkel, ma in altre preferisce pensare soprattutto agli interessi nazionali della Francia. Se l’asse franco-tedesco è meno scontato di prima, anche il Regno Unito, che ha ancora più margini di azione ed autonomia, può decidere di volta in volta, sulle singole tematiche, se andare a braccetto o meno con i Paesi Ue, in particolare con quelli più influenti come la Germania e la Francia. In ogni caso, nonostante Brexit, la Gran Bretagna non si è spostata geograficamente e deve comunque mantenere delle relazioni con il resto d’Europa, pur reinventate e differenti dal recente passato.

Entrando nel merito dei due no di Londra-Parigi-Berlino, ci sembra che il no ai dazi trumpiani abbia qualche ragione, mentre quello riguardante la questione nucleare iraniana sia perlopiù sbagliato. L’Unione europea ha mille difetti che ricadono peraltro sugli abitanti del Vecchio Continente, ma obiettivamente non rappresenta un pericolo per la sicurezza nazionale americana e i leader europei fanno bene quindi a pretendere chiarezza da parte del presidente Trump e a rifiutare l’idea dei dazi. L’Europa, le imprese, sia europee che americane, settori della politica di Washington, devono e possono provare a sensibilizzare Trump su questo argomento in merito al quale bisogna andarci piano, con estrema prudenza. La ricerca di una globalizzazione fra concorrenti leali è comprensibile, ma occorre stare bene attenti ai passi da compiere perché il rischio di colpire anche quelle economie non ostili e realtà amiche come l’Ue, il Canada e il Messico, è dietro l’angolo! Trump ha posticipato di un mese la decisione sui dazi, lasciando intendere, forse, di essere ragionevolmente aperto a delle trattative, ma bisogna auspicare che non si voglia nemmeno temporeggiare troppo perché anche solo questa incertezza, trascinata da un mese all’altro, può produrre molti danni all’economia e alle imprese.

La situazione si capovolge però, con un Trump che ha ragione e con un’Europa che sbaglia, se ci spostiamo dai dazi all’Iran. Qui Merkel-Macron-May difendono un accordo già nato male nel 2015. Già allora esso non offriva garanzie sufficienti circa un effettivo controllo da parte occidentale sullo sfruttamento in Iran dell’energia nucleare. Non consentiva e non consente di avere la certezza che l’uso del nucleare sia finalizzato ad obiettivi civili e non, come si sospetta da anni, anche militari. Se Obama si accontentava di un patto, diciamo così, sulla fiducia, per l’attuale presidente Usa tutto ciò non è sufficiente e non mette al riparo il mondo dalla pericolosità sempre in agguato della teocrazia di Teheran. Anche Londra e l’Ue farebbero bene a dimenticarsi dell’ottimismo o ingenuità di Obama e sposare i dubbi di Trump, alla luce oltretutto delle accuse, accompagnate da prove, lanciate in questi giorni dal premier israeliano Benyamin Netanyahu.

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