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Il problema dell’Europa non è Trump, ma il suo declino economico e la sua deriva geopolitica

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Il punto non è “cantargliele ancora” a Trump, come Il Foglio esorta Angela Merkel a fare nel titolo a un lungo articolo di Paola Peduzzi che raccoglie tutte le puntute considerazioni della cancelliera alla conferenza sulla sicurezza di Monaco di quest’anno (disertata dal presidente francese Macron). Il punto, come sottolineano sia l’analista del Financial Times Wolfgang Münchau che il politologo Walter Russell Mead, non sospettabili di simpatie “trumpiane”, è che sarebbe anche ora che gli europei riconoscano che il loro problema non è Trump. “La strategia economica della Germania è incredibilmente tossica” per l’Europa, osserva Münchau: l’ossessione tedesca per i surplus di bilancio e per una crescita trainata dall’export, un modello vulnerabile agli shock esterni i cui limiti stanno emergendo, mentre la domanda interna dovrebbe essere rilanciata con investimenti e tagli di tasse; la resistenza di Berlino alle proposte di riforma dell’Eurozona. “Questo, non Trump o Putin, è il motore della crisi esistenziale dell’Ue”.

Anche per Walter Russell Mead, “il più grande errore che gli europei possono commettere è credere che il loro problema più grande sia Donald Trump”. Non solo l’attuale presidente Usa, “anche alcuni dei più stretti amici dell’Europa sono sempre più scoraggiati”, avverte. Se qualche anno fa alcune analisi prevedevano che l’Ue emergesse come “nuova superpotenza sulla scena mondiale”, oggi nemmeno i suoi amici credono a tale prospettiva. George Soros, uno dei più forti sostenitori del progetto europeo, giusto qualche giorno fa ha avvertito che se le cose non cambiano, “l’Ue andrà incontro alla fine dell’Unione sovietica nel 1991”, cioè la dissoluzione.

“Il declino, non The Donald, è lo spettro che perseguita l’Europa oggi”. I dati della crescita anemica dell’Eurozona nell’ultimo decennio, riportati dallo stesso WRM la scorsa settimana, parlano chiaro. Anche le cifre in euro della Bce mostrano un tasso di crescita medio annuo dal 2009 al 2017 dello 0,6 per cento. “Non sono i tweet di Trump il motivo per cui i populisti sono al governo in Italia e la rivolta dei gilet gialli ha scosso gli sforzi di riforma di Macron in Francia”. Dalla crisi l’economia italiana si è ridotta a una media dello 0,5 per cento l’anno, mentre quella francese è cresciuta a una media solo dello 0,8. Il paradosso è che solo il prezzo contenuto dell’energia, reso possibile dal fracking americano, a cui ha dato impulso l’amministrazione Trump, “ha tenuto a galla queste fragili economie”.

Qualunque cosa realmente pensi il presidente Trump, osserva WRM, l’unità europea conta per gli interessi americani. “Solo un’Europa forte può stabilizzare la regione, gestire i flussi migratori in modo umano e sostenibile, contenere la Russia a costi contenuti, e fornire alle aziende americane i mercati necessari alla loro crescita. Nel suo corso attuale, l’Ue non può raggiungere questi obiettivi, e il declino o la dissoluzione peggiorerebbero solo le cose”. “Non è negli interessi Usa che l’Europa faccia la fine dell’Unione sovietica o resti bloccata nel suo declino”. Tuttavia, “invece di riformarsi, un establishment europeo assediato sta facendo quadrato contro i suoi critici all’interno e all’estero”. Ma la retorica incendiaria da una parte e dall’altra non serve a nessuno, se non a Russia e Cina, che “saranno felici di sfruttare le tensioni e le fratture” tra le due sponde dell’Atlantico.

“L’Europa continua a scivolare verso l’irrilevanza sulla scena globale”, conclude WRM. Persino Josef Joffe, editore e direttore del settimanale tedesco Die Zeit, ha di recente sostenuto che il progetto di fare dell’Ue una superpotenza è già imploso: sul piano della politica mondiale, “l’Europa non esiste”.

Se il fallimento dell’Ue comincia ad essere un’analisi condivisa anche dagli amici del progetto europeo, forse gli eurocrati di Bruxelles, gli euroentusiasti e i piùeuropeisti dovrebbero cominciare a porsi qualche domanda, anziché agitare lo spettro del nemico esterno, sia esso Trump o Putin – retorica tra l’altro tipica dei regimi autoritari.

Anche riguardo le tensioni tra le due sponde dell’Atlantico, il problema non è Trump. L’ostilità del presidente Usa – in realtà soprattutto nei confronti di Bruxelles e Berlino, mentre con i governi di molti stati europei ha instaurato un’ottima intesa – è il sintomo, una reazione, non la causa scatenante.

Ci sta che a Monaco di Baviera la Merkel, giocando in casa davanti a una platea senza tifosi ospiti, abbia riscosso applausi, mentre il discorso del vicepresidente Usa Pence sia stato accolto freddamente. Ciò non dovrebbe impedirci però di riscontrare l’incapacità da parte europea, e tedesca, di ragionare in termini strategici. Attenzione, non intendo dire che “non capiscono” Trump… Sarebbe un “peccato” tutto sommato veniale, e in parte comprensibile dal momento che forse nessun altro presidente americano ha trattato gli alleati più stretti con una tale combinazione di critica e disprezzo. Ma se i presidenti passano, l’America resta. E il problema è che da due decenni in Europa si sottovaluta, quando non si favorisce, il logoramento dei legami transatlantici; non si risponde, o si risponde negativamente, alle sollecitazioni che arrivano da oltreoceano; si negano le proprie responsabilità nella difesa e sicurezza comune, che non si limitano al contributo alla Nato ma riguardano anche una comune visione delle principali sfide geopolitiche ed economiche. Quando la cancelliera Merkel, da Monaco, avverte che il ritiro dei duemila soldati Usa dalla Siria rafforza le posizioni russe e iraniane strappa più che altro un sorriso, se pensiamo a Nord Stream 2, che aumentando la dipendenza europea dal gas russo indebolisce l’Occidente, e al tentativo di aggirare le sanzioni Usa contro Teheran per difendere il pessimo accordo sul programma nucleare del regime, all’origine delle “mani libere” degli ayatollah nella regione. È Washington che ha fondati motivi per ritenere, parafrasando la cancelliera, che l’Ue “non sia più un alleato scontato” e che non si possa “fare affidamento” sulla guida tedesca.

Semplicemente, l’Europa non è su una rotta sostenibile, anche dal punto di vista geopolitico. E non lo è il suo Paese leader, la Germania. La disputa commerciale aperta dall’amministrazione Trump anche con l’Ue ha in realtà nel mirino Berlino e il suo enorme surplus (sì, rischiamo di immolarci tutti per le auto tedesche), superiore persino a quello di Pechino, dovuto in gran parte a un mercato unico iper protetto e alla svalutazione dell’euro. Agli occhi di Washington dunque, i tedeschi “scroccano” non solo l’ombrello Nato, ma anche i loro record commerciali. Non un comportamento da alleati, soprattutto se questa politica dei mega surplus fiscali e commerciali, mercantilista e bismarckiana, alimenta l’instabilità economica e politica dell’Europa, indebolendo così l’Occidente, e se la Germania usa la sua influenza per affermare l’idea (o piuttosto la pericolosa illusione) di un’autonomia strategica dell’Ue.

Se qualcuno a Berlino, Parigi e Bruxelles, sta pensando che il trumpismo in fondo sia una parentesi e che basti temporeggiare finché il ciclone sull’Atlantico non sia passato, è molto probabile che si stia illudendo, che stia sbagliando e di grosso. Primo, perché non è così remota la possibilità che Trump venga rieletto nel 2020 e allora potrebbe essere davvero tardi per ricucire. Secondo, perché le due sponde dell’Atlantico si stanno allontanando da ben prima del suo arrivo alla Casa Bianca. L’attuale presidente Usa ha solo deciso di affrontare di petto i problemi sul tavolo con l’Europa. È molto probabile che future amministrazioni repubblicane proseguano sulla stessa linea nei confronti degli alleati europei, sebbene con toni meno aspri, mentre nel caso in cui gli succeda un’amministrazione democratica, è bene sgombrare subito il campo da un equivoco, da una errata percezione su quella appena conclusa.

Non traggano in inganno le lodi che nei suoi otto anni il presidente Obama ha ripetutamente tributato al progetto europeo definendolo un “successo”. Fondamentalmente, la sua linea nei confronti dell’Europa è stata di progressivo disimpegno. È stato infatti il presidente che più di ogni altro ha rivolto il suo sguardo al Pacifico.

Da una parte, non sono mancati attriti e criticità. Obama non ha condiviso come Bruxelles, e soprattutto Berlino, hanno affrontato la crisi dell’Eurozona: aveva caldeggiato una politica espansiva e l’idea degli eurobond. Aveva chiesto di superare i veti all’ingresso della Turchia nell’Unione. Anche lui ha aspramente criticato il mancato impegno degli alleati europei a raggiungere una spesa militare del 2 per cento del Pil, coniando per primo la dura espressione “free-rider” (scrocconi) al loro indirizzo. I dossier del deficit commerciale e del gasdotto Nord Stream 2 erano anche sul suo tavolo, sebbene trattati con un profilo più basso. E anche le sue amministrazioni hanno agito non tenendo conto degli interessi europei, provocando anzi ingenti danni e alimentando instabilità ai confini dell’Ue (Ucraina, Libia, Siria). Ma soprattutto, mentre da noi esplodeva l’obamamania – in America scemata già dopo i primi mesi – assistevamo sotto la presidenza Obama allo spostamento forse più significativo dell’attenzione strategica degli Stati Uniti dall’Europa verso l’Asia, con la riduzione di energie, risorse e soldati nel Vecchio Continente e la zelante ricerca di un asse G2 Usa-Cina; all’abbandono al loro destino dei Paesi dell’Est europeo nel tentativo di reset dei rapporti con la Russia; all’apertura all’Iran, abbandonando Israele.

La sopravvalutazione del progetto europeo ha portato Obama a pensare che fondamentalmente l’Europa non avesse più bisogno degli Usa, che non vi fossero più minacce da cui difenderla, che se la potesse cavare da sola, delegando a una Germania sempre più egemone il ruolo di timoniere.

L’Europa era ed è, invece, un continente geopoliticamente alla deriva, che la corrente della storia e timonieri poco avveduti rischiano di trascinare tra le braccia di Cina e Russia.

Se Obama è stato piuttosto indifferente rispetto a tale tendenza, concentrato com’era a costruire una governance globale da condividere proprio con Pechino, l’amministrazione Trump viceversa (e c’è da credere che su questo la seguiranno anche le future amministrazioni repubblicane), vedendo in termini di confronto tra rivali strategici i rapporti con la Cina, sta tentando di contrastarla e di richiamare gli alleati europei al fianco dell’America in questa sfida. Potranno sconcertare le critiche e i toni che Trump rivolge ad alcune capitali europee, ed essere attribuiti a una volontà di disintegrare l’Ue gli sforzi per rafforzare i legami e l’alleanza con altre, ma manifestano anche una rinnovata attenzione rispetto al suo predecessore.

Se, quindi, a Obama un’Europa germanocentrica andava a genio, perché ai suoi occhi gli permetteva di disimpegnarsi dal Vecchio Continente per concentrarsi, appunto, sul versante Asia-Pacifico, per Trump (e, c’è da ritenere, per i futuri presidenti repubblicani) è inaccettabile fintantoché implica il rischio che venga attratta nell’orbita di Pechino e Mosca in un blocco euroasiatico.

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