L’attesa e da alcuni temuta riunione del Gruppo di Lima di lunedì scorso a Bogotà si è conclusa apparentemente con un nulla di fatto. Dopo gli scontri del fine settimana tra polizia e paramilitari di Maduro e manifestanti e volontari dell’opposizione, impegnati nella sfida umanitaria al regime, circolavano voci preoccupate. Da una parte l’insistenza di Guaidò sulla valutazione di “tutte le opzioni possibili”, dall’altra la presenza del vicepresidente americano Mike Pence facevano prevedere una possibile escalation militare della contesa in atto. Invece i tredici paesi sudamericani più il Canada si sono limitati a condannare la repressione (alcuni morti e diversi feriti ai confini con Brasile e Colombia) e a prevedere, su proposta di Washington, un inasprimento delle sanzioni economiche e dell’isolamento della cupola chavista. L’opzione bellica per il momento non si contempla apertamente, anche se resta nell’aria come strumento di pressione, e in fondo è logico che sia così.
Nonostante la gravità della situazione è difficile applicare al caso in questione i principi internazionalmente riconosciuti dell’intervento umanitario e della responsabilità di proteggere. Quella venezuelana è una tragedia al rallentatore, dove si fa la fame e si muore di nascosto, negli ospedali senza medicine, nei centri di detenzione e di tortura, fulminati in strada o in casa dalla polizia e dai corpi speciali. La crisi economica, l’esodo dei disperati, le violazioni ripetute dei diritti civili e politici sono sotto gli occhi di chiunque li voglia vedere ma di per sé non sono sufficienti – almeno ad oggi – a generare il consenso necessario ad un’azione militare. L’Europa si è già smarcata e anche nel continente americano si considera che i costi davanti all’opinione pubblica a alle istituzioni internazionali sarebbero difficili da sostenere per i rispettivi governi.
Il piano, al di là delle dichiarazioni ufficiali, è dall’inizio quello di provocare una rivolta anti-Maduro in seno alle forze armate, una sollevazione militare che riconsegni il potere ai civili una volta deposto il dittatore. Già nel giugno scorso la rivista Foreign Policy suggeriva questo scenario che, al momento, sembra l’unico in grado di condurre a un cambio di regime dall’interno e di restituire legittimità alle istituzioni, liberandole da quelli che Guaidò a buon diritto definisce “usurpatori”. Nonostante le diserzioni delle ultime settimane di soldati semplici e quadri intermedi dell’esercito, la rete di complicità e di prebende su cui si basa la sopravvivenza di Maduro continua tuttavia a garantirgli la fedeltà degli alti comandi: ma tutto può cambiare in funzione dell’aggravarsi della situazione economica, delle sanzioni, delle offerte di indulto che a più riprese sono state formulate dallo stesso Guaidò e – importante – dell’atteggiamento dei settori più pragmatici del chavismo.
Maduro ostenta sicurezza, convoca i suoi in piazza quasi ogni giorno, fa detenere giornalisti stranieri mentre balla la salsa sui cadaveri ancora caldi dei suoi oppositori e i ministri del suo governo parlano al mondo con toni minacciosi. Ma tutti sanno, anche a Caracas, che la sopravvivenza del regime semplicemente non è un’opzione. Non gli resta che personalizzare lo scontro, Trump, l’imperialismo americano, la destra, il nemico colombiano: sa di avere alleati ideologici in Europa che gli reggono il gioco e punta sulla carta della propaganda. Ma questa volta sembra proprio che a decidere le sorti del Venezuela non saranno i tragicomici apologeti del chavismo, quelli che quando il popolo insorge contro un dittatore di destra celebrano la rivoluzione dei garofani e quando lo fa contro un residuo del socialismo reale gridano al golpe.
Vero è che un alleato oggettivo di Maduro è l’Unione Europea, incapace di definire una posizione comune come istituzione (il voto del Parlamento è puramente simbolico) e artefice, attraverso i buoni uffici della ineffabile Federica Mogherini, di quella strana invenzione diplomatica chiamata Gruppo di Contatto che altro non è che la materializzazione della proverbiale ambiguità e equidistanza di chi a Maduro in fondo vorrebbe concedere altre opzioni di nuocere. In generale anche il riconoscimento di Guaidò da parte dei singoli stati europei si dimostra solo formale. Nessuno sembra credere davvero che il presidente sia lui, i suoi rappresentanti diplomatici vengono riconosciuti in sordina e mancano iniziative concrete per appoggiare la transizione. Come sempre a sporcarsi davvero le mani rimangono Washington e gli stati americani.
Tra gli alleati ufficiali di Maduro, la Cina tace e osserva, la Russia si lancia in invettive da guerra fredda nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ma nel frattempo protegge (leggasi congela) i fondi delle aziende statali venezuelane. I prestiti vanno pagati in qualche modo. Poi c’è Cuba, la gran madre della rivoluzione bolivariana. Immerso in una strana transizione interna da castrismo a castrismo, il Partito Comunista Cubano si gioca la stabilità. Se cade Caracas, trema l’Avana. E’ un fatto, non un’opinione. Se si vuol ravvisare una strategia nell’erratica politica estera di Trump bisogna guardare all’asse delle tre dittature, Venezuela, Cuba e Nicaragua. Qui Washington sembra avere le idee chiare, il tempo è scaduto. In quindici giorni Diaz-Canel è stato contestato due volte, prima durante una visita ai senzatetto del tornado, poi in pieno centro da un centinaio di persone il giorno prima del referendum sulla “nuova” costituzione (ovviamente approvato a larga maggioranza). Segnali.
Tornando a Caracas. Chi ha la legittimità non ha il potere reale e viceversa. E’ un rompicapo che va risolto. Il problema è come. Finora l’opposizione ha agito bene, coerente, coordinata internamente e a livello internazionale, coesa intorno al gruppo storico della dissidenza, agli arresti o in esilio ma finalmente unita nell’azione: Leopoldo López, sua moglie Lilian Tintori che aprì gli occhi a Trump appena insediatosi, Julio Borges, Freddy Guevara, Lester Toledo, Antonio Ledezma, Mitzy Capriles, Carlos Vecchio. Ricordate questi nomi. Insieme a molti altri meno noti sono gli artefici di una diplomazia discreta, quasi segreta, che ha spiegato alle cancellerie occidentali la tragedia venezuelana e ha creato le basi per il riconoscimento quasi unanime di Juan Guaidò nei giorni successivi alla proclamazione del 23 gennaio. Un patrimonio da non dilapidare.
Nonostante le difficoltà gli obiettivi restano chiari: fine del regime, governo di transizione, elezioni libere. Il punto decisivo è il primo, come arrivarci senza perdere impulso. In quest’ottica le rivendicazioni di carattere umanitario, oltre ad essere una priorità per la popolazione, rappresentano una strategia politica inteligente, difficile da contrastare a medio e lungo termine anche per un complesso politico-militare abituato a vivere alle spalle della gente. Guaidò deve mantenere l’iniziativa denunciando la realtà quotidiana senza retorica. L’esistente è una testimonianza più che sufficiente per giustificare il cambiamento. In fondo stiamo assistendo ad un nuovo tipo di transizione che, se avrà successo, creerà un precedente: un nuovo regime (democratico) tenta di sovrapporsi gradualmente all’attuale (autoritario e fallito) richiamandosi alla legittimità costituzionale, attraverso una serie di azioni parallele volte a ristabilire la legalità violata. Non si tratta di uno scontro tra governo e opposizione ma tra poteri: l’esecutivo (illegittimo e non riconosciuto) contro il legislativo (legittimato dalla costituzione e dal riconoscimento internazionale). Maduro, come Lenin cent’anni prima, si prende gioco dell’unico organismo espressione di un’autentica volontà popolare: l’Assemblea Costituente allora, l’Assemblea Nazionale oggi. Crea un organismo parallelo, a sua immagine e somiglianza e si auto-proclama presidente (lui sì) in un’elezione truccata e senza opposizione. Si veste di tutto punto per giurare a gennaio. Consuma (lui sì) il golpe. Dieci giorni dopo il Venezuela dice basta. Indietro non si torna.