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Sanzioni Usa e proteste in strada, il regime iraniano alle strette e l’ipocrisia europea

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Da ieri mattina alle 6 (ore italiane) sono tornate in vigore alcune delle sanzioni economiche Usa contro l’Iran che erano state revocate per effetto dell’accordo sul programma nucleare iraniano raggiunto nel 2015 tra Teheran e i 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania), da cui però nel maggio scorso il presidente Trump ha deciso di ritirarsi. Nel frattempo, non si placano, anzi si intensificano in Iran le proteste contro il regime per una situazione economica sempre più drammatica, che le sanzioni non faranno che aggravare ulteriormente.

Il rial, la moneta iraniana, è in picchiata: in un anno ha perso l’80 per cento del suo valore rispetto al dollaro. Migliaia di bus sono rimasti fermi per 24 ore a Teheran in attesa di carburante: la compagnia che doveva rifornirli si è rifiutata di farlo perché il governo non paga i suoi debiti. Nei video che circolano in rete in questi giorni si vedono centinaia di manifestanti cantare “morte al dittatore!”, “morte a Khamenei!”, “morte a Rouhani!”. Al regime viene rimproverata una politica estera espansionista a scapito del benessere del popolo iraniano. Una sorta di “Iran First”: perché il governo spende miliardi di dollari per sostenere il regime di Assad in Siria, Hezbollah e Hamas, mentre il Paese è in crisi? Una crisi da overstretching: il costo dell’influenza che Teheran intende proiettare sulla regione va oltre le sue forze, in termini economici e di consenso.

Costringere il regime iraniano a cessare le sue attività destabilizzanti all’estero, in Medio Oriente, privandolo delle risorse per finanziarle, è esattamente l’obiettivo che l’amministrazione Trump si prefigge con le sanzioni. Non stiamo cercando un “regime change”, ha chiarito il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton parlando a Fox News: “Vogliamo mettere una pressione senza precedenti al governo iraniano affinché cambi comportamento”. Di “enorme cambiamento” ha parlato anche il segretario di Stato Mike Pompeo: “Devono comportarsi come un Paese normale, è piuttosto semplice”. Se il regime change non è l’obiettivo dichiarato di Washington, è certo però che la caduta del regime diventa un’eventualità concreta, se Teheran decide di perseverare nella sua politica attuale.

La strategia della massima pressione adottata dall’amministrazione Trump è volta a porre il regime di fronte a una scelta definitiva tra le sue attività destabilizzanti nella regione e la sua stessa sopravvivenza. Se non abbandona le prime, è a rischio la seconda, per collasso economico.

“Le sanzioni più dure mai imposte, e a novembre saliranno ad un altro livello”, ha twittato il presidente Trump ieri. Il riferimento è alle sanzioni che saranno in vigore dal prossimo 5 novembre, quando ad essere colpiti saranno anche il settore bancario e quello energetico di Teheran, a partire dalle esportazioni petrolifere, con l’obiettivo di dimezzarle. Una minaccia tale alla sopravvivenza del regime che nei giorni scorsi il presidente Rouhani è arrivato evocare come rappresaglia il blocco dello Stretto di Hormuz, da cui secondo la U.S. Energy Information Administration passa ogni giorno oltre il 30 per cento del traffico di greggio via mare a livello globale. A difesa di questa rotta commerciale, da cui dipende l’economia mondiale, come ha ricordato il segretario alla difesa Usa Mattis, c’è anche la Quinta Flotta statunitense, di base in Bahrein. Un blocco dello Stretto provocherebbe una risposta immediata: se l’Iran ci provasse, Stati Uniti e alleati del Golfo “sarebbero in grado di riaprirlo in pochi giorni”, ha avvertito l’ammiraglio in pensione James Stavridis parlando alla CNBC.

“Resistere o non resistere”, è dunque la domanda del momento a Teheran. Un dibattito che va avanti dal 1979, dalla nascita della Repubblica islamica, come ha ricordato Amir Taheri in un suo articolo dei giorni scorsi, e che da allora ha diviso l’elite khomeinista tra gli “accommodationists”, pronti a cercare una forma di accordo con gli Stati Uniti, e coloro che rifiutano persino di dialogare con il “Grande Satana”.

La fine disastrosa della presidenza Ahmadinejad aveva dato nuova linfa agli “accommodationists”. Sforzo culminato con l’accordo sul programma nucleare tra il presidente Obama e il presidente Rouhani. Ma oggi anche questo capitolo si è chiuso, come ammesso dal ministro degli esteri Zarif, che nei giorni scorsi parlando a Teheran ha sostenuto che anche Obama, seppure “garbato e amichevole”, non è stato abbastanza sincero.

Oggi, secondo Taheri, non sembra esserci più spazio per la solita strategia cheat-and-retreat di Teheran, non c’è più tempo per ondeggiamenti tattici tra dialogo e “resistenza”. Come spiega nel suo articolo, i miliardi spesi per Assad in Siria, per Hezbollah in Libano, e anche nel fomentare la guerra civile nello Yemen, non solo hanno finito per danneggiare l’interesse nazionale, non sono bastati nemmeno ad assicurare un’avanzata dell’ideologia khomeinista nella regione: e oggi, “l’incombente crisi potrebbe essere un’opportunità per gli iraniani, sia di regime che oppositori, per decidere se vogliono che l’Iran sia lo strumento di un’ideologia fallita o uno stato-nazione con i suoi interessi legittimi, quantificabili e analizzabili razionalmente”. Il presidente Trump ha quindi “l’opportunità di incoraggiare la trasformazione dell’Iran da strumento di un’ideologia malata a membro normale della comunità di nazioni”. L’obiettivo dovrebbe essere “aiutare l’Iran a curare se stesso dalla malattia del khomeinismo e a tornare una nazione in salute”.

E l’Europa, che fino all’ultimo ha cercato, anzi sta ancora cercando di salvare l’accordo sul programma nucleare, convincendo Teheran che continuerà a beneficiare del business con le aziende europee? “Chiunque faccia affari con l’Iran NON farà affari con gli Stati Uniti”, ha ribadito il presidente Trump nel suo tweet di ieri.

Ma l’Europa prova a “resistere”, almeno a parole… Nella nota congiunta di lunedì la responsabile Ue per la politica estera, Federica Mogherini, e i ministri degli esteri di Francia, Germania e Regno Unito, i tre Paesi coinvolti nell’accordo del 2015, “deplorano profondamente” la decisione di Washington di reintrodurre le sanzioni e ripetono che sono “determinati a proteggere gli operatori economici europei impegnati in affari legittimi con l’Iran”, confermando l’entrata in vigore dal 7 agosto del cosiddetto “statuto di blocco”, che vieta l’applicazione delle sanzioni secondarie Usa e dei loro effetti sul territorio europeo. Peccato che nulla potrà schermare le imprese europee dalle conseguenze che subiranno nei loro rapporti economici e finanziari con gli Stati Uniti.

Il ministro degli esteri iraniano Zarif aveva chiesto passi concreti prima del 6 agosto per salvaguardare i benefici dell’accordo sul nucleare, un termine definito irrealistico dal ministro degli esteri francese Le Drian. E Washington ha respinto tutte le richieste di esenzione per le aziende europee che operano in Iran. Il segretario al tesoro Mnuchin e il segretario di Stato Pompeo “non hanno risposto favorevolmente a nessuna delle richieste formulate” nella lettera inviata dai governi di Francia, Germania e Regno Unito all’indomani del ritiro degli Usa dall’accordo.

L’ipotesi su cui tempo fa si stava ragionando a Bruxelles, Parigi, Berlino e Londra, era di tenere aperto un canale finanziario con Teheran consentendo alla Banca centrale iraniana di attivare alcuni conti presso le rispettive banche centrali nazionali europee, attraverso i quali rimpatriare i proventi delle sue esportazioni di petrolio, o almeno poterli usare per acquistare beni industriali. Una soluzione però difficilmente percorribile, perché le esporrebbe a rischi enormi, a cominciare dalla violazione delle norme internazionali sull’anti-riciclaggio. Da Washington hanno esplicitamente avvertito che nessuna istituzione finanziaria europea, banche centrali comprese, dovrebbe avere rapporti con la Banca centrale iraniana, il cui governatore è sotto sanzioni Usa, in quanto considerato “terrorista” per aver trasferito fondi a Hezbollah. Il governo americano non esiterebbe a imporre sanzioni persino sui governatori e i membri dei board delle banche centrali europee, e negare ad esse l’accesso ai mercati finanziari americani, con enormi costi in termini economici e politici.

Insomma, la strategia dell’amministrazione Trump per isolare l’economia iraniana sembra stia funzionando. Tutto quello che avete letto e sentito – che le sanzioni non avrebbero funzionato, che gli Stati Uniti si sarebbero trovati “isolati” – non era altro che wishful thinking ed echo chamber. A dispetto delle parole nei comunicati di Bruxelles e dei governi dei Paesi Ue, nessuna compagnia europea sarà così avventata da rischiare il suo accesso al mercato Usa per fare affari con l’Iran. La tedesca Daimler è solo l’ultima (dopo Total, Maersk, Volkswagen e tante altre) ad abbandonare il Paese, come riferiva ieri Bloomberg.

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