Esteri

Non solo dazi, anche compiti a casa: l’insostenibile dipendenza dalla Cina

Ecco gli obiettivi di Trump e l’errore metodologico di molti liberali. Status quo indifendibile, decoupling medicina amara ma necessaria. In Europa il partito cinese vuole consegnarci a Pechino

Trump Xi © ronniechua tramite Canva.com

Con i dovuti aggiustamenti e la necessaria “flessibilità”, evocata dallo stesso Donald Trump per giustificare la frenata sui dazi “reciproci” nei confronti della maggior parte dei Paesi e l’esenzione di alcuni prodotti dai super-dazi imposti alla Cina, la politica commerciale del presidente Usa va avanti, il decoupling dall’economia cinese sembra avviato. Certo, sarebbe stato più saggio calibrare meglio dall’inizio la nuova politica, così da evitare incertezze e stop-and-go, ma non staremmo parlando di Donald Trump.

Territorio inesplorato

Lungi dal rappresentare una “resa” come sostengono i suoi critici, le correzioni sono finalizzate a rendere la nuova politica sostenibile nel tempo, economicamente e politicamente. Perché nonostante la retorica trionfalistica ai limiti del parossismo cui ci abituati il presidente Usa – anche per contrastare una copertura mediatica massicciamente e pregiudizialmente negativa – i tempi sono lunghi e i risultati incerti.

Si tratta comunque di un cambio di paradigma epocale, il tentativo di chiudere la fase della globalizzazione “alla cinese”, che tutto è stata fuorché una situazione idealtipica di libero commercio, come vedremo più avanti, per arrivare magari ad una globalizzazione più esclusiva ma più equilibrata.

Siamo in un territorio inesplorato, molto difficile fare previsioni. Diciamo che se le mosse dell’amministrazione Usa fossero puramente autolesioniste, seguendo la massima che suggerisce di non ostacolare il tuo nemico mentre sta sbagliando, Pechino non avrebbe dovuto reagire come ha reagito, arrivando a bloccare le esportazioni di terre rare.

Come riporta il Wall Street Journal, il carico movimentato dai porti cinesi nel periodo dal 7 al 13 aprile, immediatamente successivo all’escalation, è crollato del 9,7 per cento rispetto alla settimana precedente, attestandosi a 244 milioni di tonnellate. Un dato nettamente inferiore al calo dello 0,88 per cento registrato la settimana precedente, quando Trump aveva annunciato per la prima volta il suo piano di dazi reciproci.

Le grandi compagnie, Big Tech incluse, che hanno delocalizzato in Cina gran parte delle loro produzioni, più che opporsi al disegno della nuova amministrazione sembrano chiedere più tempo per ricalibrare il loro business. Si parla del friendshoring di Apple e di un massiccio investimento di Nvidia negli Usa.

Gli obiettivi

Gli obiettivi sono chiari a chiunque voglia vederli e non nascondere la testa sotto la sabbia. Riequilibrare il più possibile la bilancia commerciale, oggi evidentemente squilibrata, non per effetto della mano invisibile del mercato, della legge della domanda e dell’offerta, delle insindacabili scelte dei consumatori, ma per effetto della mano visibilissima degli stati (o blocchi di stati); riportare negli Usa alcune produzioni, per quanto possibile, soprattutto nei settori strategici; arrestare l’avanzata della Cina minando la sua capacità di sfruttare a suo vantaggio, con pratiche predatorie, l’apertura commerciale altrui.

Vaste programme, si direbbe. Dagli esiti non immediati né scontati. Da una parte le spinte inflazionistiche, i costi, la difficoltà di reinventare filiere e linee produttive, carenza di manodopera, dall’altra aziende che faranno di tutto prima di lasciare quote di mercato ai competitor.

Dollaro, da privilegio a trappola

Il famoso “privilegio” del dollaro è diventato nei decenni una trappola, alimentando un vero e proprio moral hazard interno. L’inesauribile domanda estera di dollari ha permesso agli Stati Uniti di indebitarsi a volontà senza pagarne il prezzo, ma per troppo tempo le cattive politiche sono rimaste impunite, finché superata una certa soglia, gli svantaggi hanno cominciato a superare i vantaggi. Il risultato oggi è un debito pubblico enorme, fuori controllo, e desertificazione industriale.

Come ha ricordato Federico Rampini, “dal 2008 sia Repubblicani che Democratici avevano iniziato a criticare questo modello. Trump nel suo primo mandato aveva già agito in tal senso, Biden ha mantenuto molti dei dazi messi da Trump, ne ha aggiunti altri, ha lanciato prima il Buy America e poi l’IRA, maxi-sussidi alle aziende all-american“.

I compiti a casa

Chi obietta con il ditino alzato che i dazi non sono la soluzione a questi problemi, dovrebbe anche notare che non sono affatto l’unica politica dell’amministrazione Trump per tentare di riequilibrare la bilancia commerciale e reindustrializzare l’America. Nel frattempo, Trump sta facendo i “compiti a casa”, il suo piano è di riformare l’economia americana per renderla più attraente e competitiva, attraverso la riforma fiscale, la deregulation, il taglio della spesa pubblica e dei costi dell’energia (il “Drill, baby drill”). Insomma, attaccando il big government. Esattamente ciò che dovremmo fare anche noi in Europa.

Il tema come si vede è complesso e multi-dimensionale. Sul nodo dello squilibrio commerciale si innestano questioni di sicurezza nazionale (si pensi al tema dei farmaci e dei semiconduttori) e geopolitiche.

La dipendenza dalla Cina

Una cosa è certa. La nostra dipendenza dalla Cina, sia degli Stati Uniti che dell’Europa, è forse persino maggiore di quella europea dal gas russo e l’inerzia del sistema attuale favorisce le ambizioni egemoniche di Pechino mentre erode la leadership Usa e occidentale. Lo scriviamo da anni su Atlantico Quotidiano, da anni lo sentiamo ripetere spesso, ma pare che siamo in pochi a pensarlo davvero. La situazione è grave e pericolosa. Non c’è una soluzione a costo zero, solo mali minori. La medicina è amara ma necessaria.

L’errore metodologico

I dazi – che comunque non sono l’unica politica di Trump – sono lo strumento sbagliato? Proponga un’alternativa chi crede di averne, ma lo status quo non è più sostenibile. L’unica ipocrisia che non ci possiamo permettere è ragionare come se prima di Trump vivessimo in un mondo di libero commercio perfetto, in purezza. Ecco, questa è una favola che proprio non possiamo raccontarci.

Eppure, tutte le critiche mosse ai dazi di Trump, soprattutto da molti amici liberali, muovono proprio da questo presupposto diciamo “accademico”. Come se i dazi di Trump cancellassero dalla memoria decenni di pratiche commerciali scorrette, barriere, aiuti di stato, manipolazioni monetarie, dumping salariale e ambientale. Non siamo all’“ora zero”, ma nel pieno di una guerra commerciale che dura da almeno due decenni, in cui i veri “contro-dazi”, ovvero una reazione alle barriere altrui, sono quelli di Trump. La classica inversione di causa ed effetto.

Quando non vi sia malafede, è questo l’errore metodologico fondamentale nell’affrontare la questione. E allora, andiamo fino in fondo alla teoria economica richiamata in questi giorni da molti professori e professorini che ci ricordano le lezioni di Adam Smith e i “vantaggi comparati” di David Ricardo. I dazi, nessuno può negarlo, sono tasse, l’ennesimo intervento statalista, pesantemente invasivo e distorsivo, non qualcosa di ottimale e desiderabile. E qui incontriamo la prima contraddizione: non vediamo molti dei critici di oggi – no, nemmeno molti liberali – scagliarsi con la stessa veemenza contro le tasse.

Ma muoviamo un passo ulteriore: nel mondo ideale smithiano, se è impossibile una bilancia commerciale perfettamente in pareggio, è altrettanto vero che gli squilibri tendono a chiudersi, quando, per esempio, la moneta dei Paesi in surplus si apprezza e i cittadini di quei Paesi aumentano i loro consumi e investimenti.

Bisognerà pur riconoscere che nel nostro caso qualcosa è andato storto, qualcuno ha impedito artificialmente tale dinamica. Come? Con barriere commerciali, sussidi di stato, manipolazione monetaria e compressione dei consumi interni. In una parola: mercantilismo, il contrario del libero commercio.

Il partito cinese

Fanno sorridere amaramente quindi titoli come quello del Corriere di ieri, “Xi fa il liberista”, solo perché critica i dazi Usa. Il liberismo non è solo commercio senza confini a prescindere da tutto il resto.

Se in questi anni una parte della destra, per dispetto a Biden e reazione all’ideologia woke, si è buttata tra le braccia di Putin, una parte molto più consistente della sinistra (che purtroppo include capi di governo e istituzioni Ue) per dispetto a Trump non vede l’ora di consegnarci a Pechino.

Il sospetto è che la sinistra, e con essa i “veri liberali”, non siano contrari ai dazi in quanto attacco al libero commercio e all’iniziativa privata, ma solo in quanto imposti da Donald Trump e perché mettono in discussione quel mondo senza confini che è ormai la loro unica bussola morale. Nessuno sembrava molto preoccupato per il muro verso cui ci stavamo schiantando noi europei dopo aver eretto, in appena due decenni, ogni sorta di barriera, regolamento e sanzione nei confronti delle aziende Usa.

A livello più profondo, come ha ben colto Marco Faraci, quello per cui oggi tanti impazziscono quando vengono menzionati i dazi ha poco a che fare con l’economia e molto invece con l’ideologia – cioè con il fatto che, al contrario di altre forme di interventismo, i dazi mettono in discussione il dogma di un mondo “politicamente unico”, in cui ogni forma di dirigismo è legittima se decisa “senza confini”.

Molti sembrano aver scoperto oggi che l’imposizione di tasse – siano esse dazi, Iva o Irpef – riduce il numero degli scambi tra i soggetti economici, rende più difficile l’incontro della domanda e dell’offerta, introducendo un terzo beneficiario della transazione (lo Stato) che fa sì che solo una parte di ciò che paga chi acquista vada effettivamente a chi vende. Ma a differenza delle altre tasse, far pagare di più beni “stranieri”, in nome di una visione diversa di ricaduta sociale positiva, è inaccettabile, conclude Faraci, perché la parola “straniero” non deve continuare a trovare posto nel vocabolario.

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